Depistaggio via D’Amelio, Nino Di Matteo: “Non fu solo strage di mafia. L’agenda rossa di Borsellino non è sparita per mano dei boss. Ci siamo scontrati con reticenze istituzionali bestiali”
L’ex pm depone a Caltanissetta al processo in corso sul depistaggio delle indagini sull’attentato. “Non ho mai parlato con Scarantino nelle pause degli interrogatori, ma il procuratore Tinebra gli aveva dato il mio numero. Ho preparato io i collaboratori che lo smentivano”, ha detto l’attuale componente del Csm. "L'ipotesi - ha ricostruito - era che soggetti legati ai servizi avessero partecipato alla strage di via D’Amelio, avrei respinto di certo un eventuale loro tentativo di contribuire all’indagine. Noi non ci siamo fatti aiutare dai Servizi, li abbiamo indagati"
“Non credo sia stata solo Cosa nostra“. L’ombra di responsabili diversi dalla mafia torna ad allungarsi sulla strage di via d’Amelio. A evocarla è Nino Di Matteo, ex pm del pool che a Caltanissetta indagò sulla strage di via D’Amelio, poi titolare dell’inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra e oggi componente del Csm. Il magistrato siciliano ha deposto come testimone nel processo per il depistaggio delle indagini sull’omicidio di Paolo Borsellino, in corso a Caltanissetta. Imputati di calunnia aggravata i poliziotti Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo, che facevano parte della squadra di investigatori che condusse l’inchiesta. Durante la sua deposizione il magistrato ha ripetuto quanto aveva sostenuto già altre volte, comprese alcune dichiarazioni rilasciate durante una intervista televisiva che gli è costata il posto alla Direzione nazionale antimafia. “Non credo che la strage di via D’Amelio sia solo di mafia. Il depistaggio cominciò con la scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino. E le indagini sul diario del magistrato partirono già il 20 luglio del 1992, il giorno dopo l’attentato”, ha spiegato Di Matteo, rivendicando la condotta tenuta nella prima fase dell’inchiesta. “Siccome l’ipotesi era che soggetti legati ai servizi avessero partecipato alla strage di via D’Amelio, avrei respinto di certo un eventuale loro tentativo di contribuire all’indagine. Noi non ci siamo fatti aiutare dai Servizi, li abbiamo indagati”, ha detto riferendosi all’ipotesi di un aiuto esterno arrivato in quegli anni da parte dell’intelligence.
“Reticenze bestiali su presenza istituzioni nel luogo dell’attentato” – In alcune occasioni l’esperto pm antimafia è stato attaccato per il suo passato nel pool che si occupò delle prime indagini sulla strage di via d’Amelio. Due suoi colleghi dell’epoca, Anna Palma e Carmelo Petralia, sono recentamente finiti indagati a Messina per quel depistaggio con l’accusa di calunnia aggravata. “Sono certo che né io, né altri miei colleghi parlammo con Scarantino nelle pause degli interrogatori di fatti relativi alle indagini”, ha spiegato l’ex sostituto procuratore. Il riferimento è alla gestione gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino, il balordo della Guadagna che con le sue dichiarazioni depistò le indagini. “È chiaro che l’agenda rossa di Paolo Borsellino è sparita e non può essere sparita per mano di Graviano. Il mio impegno era finalizzato a capire per mano di chi fosse sparita. Abbiamo fatto il possibile per accertarlo, anche scontrandoci con reticenze bestiali sulla presenza di esponenti delle istituzioni nel luogo dell’attentato. Da qui sarei voluto ripartire per tante altre cose. Io ho fatto confronti drammatici, mi ricordo, dopo le stragi. Tutta l’indagine che è stata portata avanti con grandissima incisività da parte mia e dei colleghi Petralia e Palma. Io mi ero studiato le carte. Sono stati fatti anni di indagini, noi siamo arrivati a scontrarci con reticenze istituzionali da parte di qualcuno”, ha detto il magistrato rispondenndo alle domande del pm Gabriele Paci. “O hanno mentito ufficiali dei Ros dei carabinieri o un funzionario di Polizia. Io ho preteso di fare una richiesta di rinvio a giudizio”.
“La strage fu accelerata”- Il componente di Palazzo dei marescialli è tornato sulla tempistica della strage: “Noi avevano chiara una cosa: rispetto ai programmi originari di Cosa nostra di uccidere Paolo Borsellino era intervenuto un fatto improvviso di accelerazione delle stragi mafiose. C’era una fretta di uccidere Borsellino – ha detto – Parallelamente si attivarono una serie di investigazioni che riguardavano alcune anomalie o alcune acquisizioni relative alla strage di Capaci o di presenze di soggetti diversi da coloro che erano stati individuati all’interno di Cosa nostra”. Quale era il motivo dell’accelerazione? “Sulle causali ci furono più filoni uno dei quali si cominciò a concretizzare nell’ultimo periodo che ero a Caltanissetta”. Di Matteo anche il processo trattativa Stato-mafia, “un altro filone era quello del rapporto mafia-appalti, però noi avevamo chiara una cosa, cioè che rispetto ai programmi originari della mafia era intervenuto un fatto improvviso di accelerazione delle stragi”.
La gestione di Scarantino: “Seppi dopo dei dubbi di Boccassini” – Di Matteo, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Gabriele Paci, ha ricordato i giorni in cui per la prima volta, nel 1994, sentì Scarantino a Genova. “Non ci furono pause durante quegli interrogatori – ha spiegato – e lo ricordo bene perché a un certo punto era necessario per Scarantino rifocillarsi e io non gli consentii di uscire chiedendo di portare dei panini nella stanza in cui eravamo. Ci mettemmo in due angoli diversi e mangiammo e mentre eravamo lì pensavo: ‘Sto mangiando nella stessa stanza con chi ha detto di aver partecipato a un fatto per cui io ho pianto amaramente”. Per Ilda Boccassini, all’epoca applicata a Caltanissetta, Scarantino non era credibile. “Seppi delle note della Boccassini e delle sue osservazioni critiche sulla gestione del pentito Scarantino solo tra il 2008 e il 2010. Con la collega Boccassini – continua Di Matto – non ho mai avuto la possibilità e la fortuna di parlare non solo delle stragi ma di indagini in generale. Per me era ed è un un magistrato da stimare moltissimo, ma con la quale la conoscenza si limitava a incontri al bar”.
“Tinebra diede mio numero a Scarantino” – Durante la deposizione il magistrato ha aggiunto: “Ci tengo a dire che sono stato il primo a dire che Vincenzo Scarantino aveva il mio numero di telefono cellulare e mi chiamava. Mi telefonava perché qualcuno gli aveva dato il mio telefono. Ricordo un episodio particolare, quando mi mandò una sequenza di messaggi telefonici in cui sosteneva che il dottor Arnaldo La Barbera e Gabrielli lo avevano tradito nelle aspettative. E che voleva tornare in carcere, disse ‘nell’inferno di Pianosa’. Ricordo di avere detto ‘ma chi glielo ha dato il mio numero?’ e seppi che glielo aveva dato il procuratore Giovanni Tinebra io non do spiegazioni ma mi preme dire una cosa: in quel momento, siamo nel ’93-’94, era un momento nel quale i collaboratori di giustizia scontavano dei problemi e vedevano nell’ufficio del Procuratore la speranza di una risoluzione di quelle problematiche”.
“Indagai a fondo sulla presenza di Contrada” – Il magistrato ha poi proseguito: “Indagai a fondo sulla presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio dopo la strage. Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende“. Contrada era il numero due del Sisde. Anni dopo fu processato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. “Vedendo quegli atti mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada – ha aggiunto – I poliziotti aveva fatto una relazione che poi era stata strappata in questura. I colleghi avevano preso a verbale Sinico e mandato tutto a Caltanissetta, dove Sinico si era rifiutato di rivelare la sua fonte. Si avviò una indagine molto spinta sui Servizi Segreti. – ha spiegato – Io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere che, poi, si decise a fare il nome della sua fonte che indicò in Roberto Di Legami, funzionario di polizia. Di Legami negò tutto. Rinviato a giudizio fu poi assolto”.
La polemica sulla preparazione del collaboratore – Nelle scorse settimane, dopo la pubblicazione delle intercettazioni tra i pm e l’ex collaboratore Vincenzo Scarantino, era nata una polemica sulla ‘preparazione’ del falso pentito da parte dei magistrati. E oggi l’ex pm del pool sulle stragi mafiose, ha voluto spiegare la parola ‘preparazione’. “Iniziamo un lavoro importantissimo che è quello della sua preparazione alla deposizione al dibattimento… mi sono spiegato Vincenzo… se sente pronto lei…” aveva detto il pm Carmelo Petralia a Scarantino che nel 1994. Secondo l’accusa gli investigatori avrebbero imbeccato l’ex pentito Scarantino che aveva reso dichiarazioni false sulle stragi. Sul punto Di Matteo dice: “Si è parlato dell’attività di preparazione del collaboratore di giustizia. Ricordo che in occasione di interrogatori che venivano verbalizzati e che erano prossimi all’impegno dibattimentale del processo Borsellino ter io ho preparato i collaboratori Salvatore Cancemi, o Giambattista Ferrante oppure Onorato. Cioè tutti quelli che smentivano Scarantino. Ma che cosa significa preparare, dire al collaboratore ‘lei giorno tot comparirà davanti alla Corte d’assise. Oppure ‘gli argomenti saranno questi’ e ancora ‘dica la verità’, né una cosa in più né una cosa in meno. Oppure ‘esponga in chiarezza, non entri in polemica’. Questo vuol dire preparare un collaboratore”.
“Nessun contatto con esponenti di servizi” – “Non c’è mai stato nessun tipo di contatto con esponenti di servizi sulle stragi mafiose”, ha inoltre sottlineato Di Matteo. “Siccome l’ipotesi era che soggetti legati ai servizi avessero partecipato alla strage di via D’Amelio, avrei respinto di certo un eventuale loro tentativo di contribuire all’indagine. Noi non ci siamo fatti aiutare dai Servizi, li abbiamo indagati”, ha ripetuto. Il riferimento è quanto ricostruito nella scorsa udienza dall’ex pm Petralia, aveva detto invece che gli 007 si erano occupati delle indagini sulle stragi. “Il rapporto col Sisde lo teneva il procuratore Tinebra – aveva detto Petralia che faceva parte del pool sulle stragi – all’epoca, data l’enormità di quanto successo, ci fu un concorso di contributi incredibile. Nella stanza del procuratore vidi anche esponenti dell’Fbi e del Bka tedesco. Quando vidi Bruno Contrada mi colpì invece la sua faccia, che mi evocava qualcosa di sinistro; ricordai i racconti di alcuni testimoni che avevo sentito nel corso delle indagini sulla strage di Capaci: Falcone non si fidava di lui. Poco tempo dopo seppi che era stato arrestato a Palermo”. Petralia aveva raccontato anche di un pranzo all’Hotel San Michele di Caltanissetta. Fra i magistrati e alcuni 007, fra cui appunto Contrada. “Fu Tinebra ad invitarmi, era il mese di dicembre 1992”.
“Tinebra non voleva indagare su Berlusconi e Dell’Utri” – Il componente di Palazzo dei Marescialli ha anche ripercorso i retroscena dell’indagine sui cosiddetti mandanti a volto coperto della strage, cioè Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, iscritti nel registro degli indagati sotto lo pseudonimo Alfa & Omega e poi archivati. “Per quanto riguarda invece i mandanti esterni alle stragi – ha detto Di Matteo – e il coinvolgimento di Berlusconi e Dell’Utri fu diverso: ci fu una riunione della Dda e fu imbarazzante. Già si sapeva che la riunione era stata convocata per valutare l’eventuale iscrizione di Berlusconi e Dell’Utri nel registro degli indagati – dice ancora il magistrato – Il procuratore di allora Giovanni Tinebra si presentò con una copia di un giornale, mi pare che fosse Il Giornale sotto braccio, che in quell’occasione pubblicò un articolo con un titolo molto critico nei confronti del collaboratore Salvatore Cancemi. Io e i colleghi Petralia e Tescaroli insistemmo per l’iscrizione. Poi, dopo una lunga e animata discussione il procuratore Tinebra diede l’ok, ma disse anche che dovevamo procedere con nomi di fantasia e che lui non avrebbe sottoscritto nessun atto”. Su questo passaggio Di Matteo è dettagliato: “L’allora Procuratore Tinebra parlando dell’inchiesta che aprimmo su Berlusconi e Dell’Utri ci disse con forza: ‘Voi farete l’nchiesta ma io non sono d’accordo, non avrete mai una mia firma su nessun atto”.
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