Alzi la mano chi ha letto il piano pandemico nazionale. Si è fatto un gran parlare, nelle ultime settimane, di questo nostro fantomatico “piano di preparazione e risposta a una pandemia influenzale” fermo al 2006. Le polemiche intorno al ruolo del direttore aggiunto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Ranieri Guerra – che avrebbe fatto pressioni sui ricercatori della sede dell’Organizzazione mondiale della sanità di Venezia per far levare dal web il dossier critico verso l’Italia – hanno tutta l’aria di essere un’arma di distrazione di massa. In molti, soprattutto dentro al governo, hanno confermato che questo piano fosse “inadeguato” per due ragioni differenti: non era aggiornato (e qui bisogna verificare la sostanza e l’impatto degli aggiornamenti), ma soprattutto hanno sostenuto che fosse riferito all’influenza, quindi non potesse essere applicato al Covid-19. È davvero così?

Bene, partiamo da questo interrogativo e ripercorriamo le fasi di questa annata orribile, ricostruendo cronologicamente gli eventi di cui oggi siamo a conoscenza e di cui, elemento fondamentale, erano a conoscenza anche i governi di tutto il mondo e gli organismi internazionali. Il 5 gennaio, l’Oms produce il primo bollettino ufficiale in cui segnala l’esistenza nella zona di Wuhan di 44 pazienti con polmonite da eziologia sconosciuta. Quello stesso giorno, come rivela a fine marzo “Il Fatto Quotidiano”, il ministero della Salute invia a vari enti tra cui l’Istituto Superiore di Sanità, l’ospedale Spallanzani di Roma e il Sacco di Milano una nota di tre pagine. Oggetto: “Polmonite da eziologia sconosciuta”. Il ministero spiega che al 31 dicembre la Cina ha segnalato alcuni casi di questo genere. Il 3 gennaio i casi sono diventati già 44. La nota del ministero aggiunge dell’altro. Spiega fin da subito quali sono i sintomi precisi per riconoscere il contagio scatenato dal virus SarsCov2. Si legge: “I segni e i sintomi clinici consistono principalmente in febbre, difficoltà respiratorie, mentre le radiografie al torace mostrano lesioni invasive in entrambi i polmoni”. Si tratta delle ormai note polmoniti interstiziali bilaterali. Tutto, dunque, era già scritto a inizio gennaio. Anche perché da lì a pochi giorni quella eziologia sconosciuta si rivelerà un patogeno molto aggressivo. Eppure si prosegue come se nulla fosse. Gli italiani nulla immaginano. Sebbene sia lo stesso ministero della Sanità a scrivere in quella stessa nota del 5 gennaio: “Sono tuttora valide le raccomandazioni dell’Oms sulle misure di sanità pubblica e sulla sorveglianza dell’influenza e delle gravi infezioni respiratorie acute”. Invece i vertici sanitari e il governo italiano ignorano l’allerta dell’Oms.

Il 7 gennaio, le autorità cinesi confermano di aver identificato un nuovo virus appartenente alla famiglia dei coronavirus, che prende temporaneamente il nome di “2019-n-CoV”. Il 9 gennaio viene documentato il primo caso di decesso a causa del “2019-n-CoV” e l’Oms conferma che l’epidemia ha origine da un coronavirus finora sconosciuto e pubblica una guida per la diagnosi. Il 12 gennaio la Cina condivide con l’Oms – e quindi con il mondo intero – la sequenza genetica del virus. Dopo pochi giorni l’Oms propone di inviare una squadra per investigarlo, ma la Cina rifiuta la proposta. Il 13 gennaio viene registrato il primo caso fuori dalla Cina, in Thailandia.

Oggi sappiamo tutti che l’Italia a gennaio del 2020 aveva un piano pandemico approvato nel 2006 e aggiornato formalmente, stilato secondo le indicazioni dell’Oms del 2005, che aggiornava e sostituiva il precedente “Piano Italiano Multifase per una Pandemia Influenzale”, pubblicato nel 2002. Dunque, a gennaio di quest’anno, tale piano pandemico rappresentava il riferimento nazionale in base al quale si dovevano mettere a punto i piani operativi regionali. Questo piano, come si legge nel documento ufficiale pubblicato sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità “si sviluppa secondo le sei fasi pandemiche dichiarate dall’Oms, prevedendo per ogni fase e livello obiettivi e azioni”. Sempre in questo testo pubblico si legge: “le Linee guida nazionali per la conduzione delle ulteriori azioni previste saranno emanate, a cura del Centro Nazionale per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (CCM), come allegati tecnici al Piano e saranno periodicamente aggiornate e integrate”. Ça va sans dire che tali aggiornamenti non siano mai stati fatti o che non fossero necessari in quanto non innescati da modifiche di direttive dell’Oms. La stesura di questo piano è durata anni ed è stata fatta in accordo con le regioni e ratificata dalla conferenza Stato-Regioni; ogni regione avrebbe dovuto elaborare un proprio piano pandemico ispirato a quello nazionale.

Ma qual era l’obiettivo di questo piano? Leggiamo: “L’obiettivo del Piano è rafforzare la preparazione alla pandemia a livello nazionale e locale, in modo da: 1. Identificare, confermare e descrivere rapidamente casi di influenza causati da nuovi sottotipi virali, in modo da riconoscere tempestivamente l’inizio della pandemia. 2. Minimizzare il rischio di trasmissione e limitare la morbosità e la mortalità dovute alla pandemia. 3. Ridurre l’impatto della pandemia sui servizi sanitari e sociali e assicurare il mantenimento dei servizi essenziali. 4. Assicurare una adeguata formazione del personale coinvolto nella risposta alla pandemia. 5. Garantire informazioni aggiornate e tempestive per i decisori, gli operatori sanitari, i media e il pubblico. 6. Monitorare l’efficienza degli interventi intrapresi”.

In pratica, le azioni chiave per raggiungere tali obiettivi sono (leggendo testualmente il documento): “Migliorare la sorveglianza epidemiologica e virologica; attuare misure di prevenzione e controllo dell’infezione (misure di sanità pubblica); garantire il trattamento e l’assistenza dei casi; mettere a punto piani di emergenza per mantenere la funzionalità dei servizi sanitari e altri servizi essenziali; mettere a punto un piano di formazione; mettere a punto adeguate strategie di comunicazione; monitorare l’attuazione delle azioni pianificate per fase di rischio, le capacità/risorse esistenti per la risposta, le risorse aggiuntive necessarie, l’efficacia degli interventi intrapresi; il monitoraggio deve avvenire in maniera continuativa e trasversale, integrando e analizzando i dati provenienti dai diversi sistemi informativi”. Infine si legge: “L’operatività del piano sarà valutata con esercitazioni nazionali e regionali, cui parteciperanno tutte le istituzioni coinvolte in caso di pandemia. Il presente piano è suscettibile di periodiche revisioni, al cambiamento della situazione epidemiologica”. In realtà, il viceministro alla Salute, Pierpaolo Sileri, medico di lungo corso, ha recentemente dichiarato: “Qui c’è una sciatteria e un pressapochismo generalizzati, persone che hanno mandato a morire centinaia di medici e infermieri, ai quali nessuno ha mai fatto un corso ed eseguire una esercitazione. In 15 anni di servizio come medico non ho mai assistito a una esercitazione del piano pandemico”. Ci chiediamo quindi: a livello regionale sono state fatte le esercitazioni previste dal piano pandemico?

Le prime ammissioni sulla trasmissione inter-umana (uomo-uomo) del virus arriveranno il 22 gennaio, nel frattempo il governo cinese mette in quarantena tutta la città di Wuhan (11 milioni di persone), espandendo successivamente la misura a quasi tutta la provincia di Hubei e raggiungendo 60 milioni di persone. È la più grande misura di quarantena mai disposta nella storia dell’umanità. Sempre il 22 gennaio, il Ministro della Salute, Roberto Speranza, attiva la task force dell’emergenza sanitaria. Ma attiva contestualmente anche il piano pandemico nazionale?

La domanda più precisamente è questa: l’allerta lanciata dall’Oms il 5 di gennaio aveva la legittimità per innescare l’attivazione del piano pandemico nazionale e di quelli assimilabili a livello regionale e questi piani erano da considerarsi idonei alla prevenzione dell’epidemia? In caso affermativo, se fossero stati applicati avrebbero consentito di evitare l’epidemia o quanto meno di ridurre i contagi e il numero di vittime, attivando le relative fasi di monitoraggio sul territorio italiano? Leggendo il piano pandemico nazionale, attualmente in vigore, ci si trova di fronte a una strategia di salute pubblica tutt’altro che inadeguata in caso di pandemia.

Ce lo dice il fatto che questo piano assomiglia molto ai piani pandemici “influenzali” di altri Stati, che hanno messo in campo strategie più adeguate delle nostre, basti pensare alla Nuova Zelanda, al Canada o alla Germania, i quali chiariscono che il piano utilizza l’influenza come modello, ma serve come cornice operativa per ogni malattia epidemica trasmessa per via respiratoria. È un dato di fatto che i piani pandemici di tutte le nazioni del mondo siano basati sull’influenza. D’altronde un piano pandemico non può prevedere la natura di un ipotetico micro-organismo che ancora non si conosce e quindi deve necessariamente adottare un modello da utilizzare come esempio. Il 26 gennaio, l’Oms alza il livello di pericolosità della Cina a “molto alto” e al resto del mondo a “alto”. Con delibera del Consiglio dei ministri il 31 gennaio viene dichiarato in Italia lo stato di emergenza sanitaria per sei mesi, fino al 31 luglio. La notizia, però, non trova risalto sulla stampa nazionale e i giornalisti, me compresa, la scoprono casualmente diverse settimane dopo.

Il dubbio oggi è che la politica non abbia fatto la politica. Se il rischio era “alto” il governo italiano avrebbe dovuto attivare il piano pandemico? Attivare un piano pandemico non è una misura sproporzionata. È una misura preparatoria. Un atto dovuto. Perché il governo italiano non ha attuato quelle norme e non ha messo in campo quelle azioni preparatorie, che avrebbero potuto attutire il colpo mortale della pandemia? Sembra banale a dirsi, ma la politica serve a questo: serve a proteggere i cittadini da eventi che – seppur improvvisi – prevedono piani di azione per mitigarne gli effetti devastanti.

I piani pandemici sono pensati esattamente con questo obiettivo: far scattare dei campanelli di allarme, che permettano di intervenire con tempestività per individuare focolai epidemici sul nascere. Non solo: servono per fare formazione tra il personale sanitario sui percorsi separati (pulito/sporco) e sull’uso dei dpi, servono per fare il censimento di respiratori e dei posti letto in terapia intensiva, per individuare le strutture ospedaliere idonee al ricovero di malati infetti e soprattutto servono per stoccare dispositivi di protezione individuale (dpi). Nel caso specifico, la domanda che esige una risposta è questa: se avessimo attivato un monitoraggio serio ci saremmo accorti di eventuali picchi anomali di infezioni respiratorie dentro ai pronto soccorsi e agli ospedali lombardi?

Il nostro piano pandemico prevedeva anche questo. Oggi sappiamo con certezza che il virus è entrato in Lombardia diverse settimane prima del 20 febbraio, ovvero almeno un mese e mezzo prima che si scoprisse il paziente 1 di Codogno, il primo malato Covid italiano, e il fatto di non aver approntato nessun tipo di azione preventiva ci ha fatto arrivare a questo evento in una condizione di totale impreparazione. All’ospedale di Alzano Lombardo, ad esempio, sappiamo che il virus circolava già da alcune settimane dentro al nosocomio e probabilmente un monitoraggio adeguato avrebbe rilevato questa anomalia. Non solo, ci sono comuni della Lombardia, dove nelle settimane precedenti alla scoperta del paziente 1 sono stati rilevati picchi anomali di infezioni respiratorie, a intervalli seriali, perché nessuno li ha comunicati? O se noti, perché nessuno è intervenuto per isolarli? Al “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo il 23 febbraio c’erano solo dieci tamponi, le mascherine e i dispositivi di protezione individuale i sanitari se li sono procurati spaccando le centraline dell’antincendio. Oggi, grazie alle testimonianze di medici e infermieri di quel nosocomio, tra cui il direttore medico Giuseppe Marzulli, che ho intervistato più volte dopo la chiusura/riapertura lampo del pronto soccorso di Alzano, sappiamo che nessuno dalla direzione generale e sanitaria di Seriate e tanto meno da Regione Lombardia avesse comunicato protocolli da seguire in caso di pandemia. Nessuna formazione. Nessuna esercitazione. Eppure la Lombardia aveva un piano pandemico. Approvato nel 2006 e applicato nel 2009, durante l’influenza pandemica H1N1. Lo ha mai attivato durante questa pandemia? Nelle numerosissime delibere emanate da Regione Lombardia in questi mesi non viene mai citato il piano pandemico regionale. Non è stato applicato perché l’infezione da Sars-CoV-2 non era un’influenza? Le procedure da mettere in campo dimostrano il contrario. L’Oms sostiene in modo chiaro che andavano applicati i piani pandemici influenzali.

I piani pandemici servono anche per attivare una rete di medici cosiddetti “sentinella”, che facciano un monitoraggio sul territorio per individuare eventuali picchi anomali di pazienti con infezioni respiratorie, in modo da intervenire prontamente per circoscrivere i focolai, prima che il contagio vada fuori controllo. Insomma i piani pandemici, quello nazionale e quelli regionali, servono a fermare la valanga, servono a fare sorveglianza, una azione fondamentale nella fase iniziale di una epidemia e che dovrebbe scattare ancora prima che venga decretata una pandemia. Perché quando viene decretata una pandemia ormai è tardi, significa che il virus è già presente in tutti e cinque i continenti e sta galoppando a una velocità rapidissima. I piani pandemici, invece, prevedono delle fasi crescenti di attivazione e preparazione. In Italia sono scattate queste fasi?

Il 5 gennaio il governo italiano avrebbe dovuto convocare la conferenza Stato-Regioni chiedere a tutte le regioni di attivare le misure previste nel piano pandemico. Bisogna tenere presente che il 5 gennaio secondo il piano pandemico nazionale si era già raggiunta la fase 3, che prevede tra l’altro la formazione degli organi di consulenza specifici, la redazione di un piano di dettaglio, la classificazione dei presidi ospedalieri, il controllo di scorte di dpi e respiratori, la formazione del personale sanitario e l’attivazione della rete di sorveglianza per monitorare i picchi anomali di sindromi respiratorie.

Insomma, lo scandalo sul dossier dell’Oms fatto sparire notte tempo sembra distrarre dal punto nodale di tutta questa storia: se l’Italia aveva un piano pandemico influenzale in vigore e simile a quello di altri Paesi, perché non lo ha attivato? Se lo avesse fatto ci saremmo probabilmente accorti in tempo che stava arrivando uno tsunami di proporzioni devastanti e non ci saremmo fatti trovare impreparati. Questa impreparazione generale e quindi il non aver fatto nulla prima del 20 febbraio ha certamente influito a determinare questo drammatico incremento di mortalità, il più alto al mondo in rapporto alla popolazione, e una diffusione così repentina del virus, che si è trovato le porte spalancate.

Non solo, proprio l’Oms 4 febbraio scrive che per organizzare una risposta efficace all’epidemia: “Il processo dovrebbe basarsi sui piani di emergenza esistenti in materia di salute pubblica, preparazione e risposta, inclusi quelli in caso di pandemia influenzale.” Quindi il nostro piano pandemico influenzale era adeguato e doveva essere attivato. Non averlo fatto è stata una delle cause di questo eccesso di mortalità? Questa potrebbe essere una delle piste investigative su cui, probabilmente, sta lavorando anche la Procura di Bergamoche indaga sul “caso Alzano” con l’ipotesi di reato di epidemia colposa e falso. Tant’è che dopo l’audizione a Bergamo del funzionario dell’Oms, Francesco Zambon, il fascicolo su questa triste vicenda (interna all’Organizzazione Mondiale della Sanità e che sembrerebbe coinvolgere in parte anche il governo italiano) potrebbe trasferirsi a Venezia.

In fondo, tornando al nostro piano pandemico del 2006, la preparazione non è un concetto astratto. Basti guardare ciò che è successo all’ospedale di Schiavonia, in provincia di Padova dove, grazie a un protocollo applicato con diligenza e tempestività, dopo il primo caso Covid registrato il 21 febbraio si è sanificato correttamente l’ospedale, si sono fatti circa 700 tamponi, si è chiusa l’area con misure di quarantena e si è spento il focolaio sul nascere. Carta canta. In Veneto possiamo dire che una preparazione anticipata ha evitato il disastro. Era stato sviluppato un test diagnostico, erano state fatte scorte (decine di migliaia) di test, acquistato respiratori, riempito i silos di ossigeno e acquistato quantità ingenti di mascherine.

Insomma, laddove sono stati applicati dei protocolli e soprattutto laddove è stata messa in campo una azione preparatoria, i focolai epidemici sono stati spenti e il contagio ridotto a zero. Quanto meno nella prima ondata. Laddove non si è predisposto nulla, non si sono fatte scorte di tamponi, di reagenti e dpi e soprattutto non si è fatta sorveglianza è successo il disastro. Ora siamo tutti distratti dallo scandalo del dossier dell’Oms fatto sparire dal web, ma il punto sembrerebbe un altro: l’Italia aveva un piano pandemico che, anche se vecchio di 14 anni, sarebbe potuto servire – se applicato – a salvare vite umane. Chiediamoci perché nessuno lo abbia tirato fuori dal cassetto.