domenica 29 luglio 2018

                                                                    SIRIA 2018

Siria, viaggio al termine della guerra: sette anni di distruzione raccontati dai religiosi cristiani di Damasco e Aleppo


Ospitiamo il racconto inedito del reporter indipendente Giorgio Fornoni: tra macerie e devastazione, la contro narrazione del conflitto fatta da frati, suore e alti prelati che hanno vissuto bombardamenti e barbarie per un lustro e mezzo. E che ora dicono: "Assad è stato la salvezza nostra e del popolo siriano"
Giorgio Fornoni è un reporter indipendente da oltre 40 anni. Da sempre attento all’umanità violata delle vittime delle guerre, ha firmato inchieste e reportage dalle zone più sperdute e pericolose del mondo. Dal 2000 collabora con Report (nel 1999 è stata Milena Gabanelli a renderlo noto al grande pubblico con una puntata del suo programma interamente dedicata a lui), nel 2010 ha pubblicato per Chiarelettere il Dvd+libro “Ai confini del mondo”, nel corso della sua carriera ha intervistato figure di primo piano della cultura e della religione: tra queste, Rigoberta Menchú, Shirin Ebadi, il Dalai Lama, Anna Politkovskaja e tanti altri. Ilfattoquotidiano.it oggi ospita il racconto inedito del suo viaggio in Siria.
Volevo capire l’assurdità della violenza e della guerra. Volevo capire come una terra considerata santa da 14 confessioni religiose, che lì hanno convissuto insieme per millenni, possa essere diventata oggi il simbolo della divisione e della tragedia. Dopo 7 anni di distruzioni e di bombardamenti, di verità e di menzogne, la Siria sta oggi lentamente uscendo dall’incubo. Le forze governative hanno ripreso il controllo sull’80 per cento del territorio e le milizie integraliste dell’Isis che minacciavano di disgregare il paese dall’interno sono state ricacciate verso le frontiere meridionali. Lo scenario che si sta oggi configurando, nel quadro incoerente e pressoché incomprensibile che i mediahanno dipinto in questi anni, è quello di una vittoria del presidente Bashar al Assad, nonostante l’ostilità dell’America, di Israele e di gran parte del mondo occidentale. A decidere l’esito della guerra è stato invece l’intervento della Russia, schierata a fianco del governo siriano, così come l’Iran e gli hezbollah del Libano. Sono stati i suoi interventi militari mirati sulle postazioni dell’Isis ad invertire un esito che sembrava annunciato. E che avrebbe visto il paradosso di un trionfo delle forze integraliste favorite da chi si è sempre dichiarato il loro più acerrimo nemico.

Eccomi dunque al confine tra Siria e Libano, sull’autostrada per Damasco che va riprendendo il suo ruolo di arteria vitale per il paese. Accompagno due frati francescani che rientrano nel convento di Bad Touma, all’interno della città vecchia. Le distruzioni non si vedono ancora. Attraverserò poi interi quartieridevastati, ma sono alla periferia della capitale, nelle zone di Douma e Goutha. Sono piuttosto i check-point, numerosissimi e presidiati dai militari siriani, a far capire che la tensione resta alta. Voglio capire qualcosa di più di questa guerra incomprensibile e assurda dalla voce di chi l’ha vissuta in prima persona. In particolare dai religiosi cristiani, che qui erano e sono una comunità rispettata e importante. Nel santuario di San Paolo, là dove l’apostolo ebbe la sua conversione, raccolgo la prima sconcertante testimonianza. “Ci sono tante cose da chiarire su questa guerra”, mi dice fra Raimondo, che ha vissuto fin dall’inizio il dramma di questo paese. “La prima è che non è stata una guerra civile, né di religione. Le varie comunità vivono ancora oggi una accanto all’altra, diffuse ovunque. Non ci sono quartieri o ghetti. I cristiani hanno sofferto come tutti gli altri e il nostro compito qui, la nostra missione è quella di testimoniarel’amore, non l’odio. I musulmani siriani sono gente buona, i loro valori sono molto simili ai nostri. La lezione di questa guerra è che la pace è un dono di Dio, ma va alimentata e cresciuta nei nostri cuori, giorno per giorno. È quello che tutti insieme oggi vogliamo ricominciare a fare”.
Le cifre della guerra sono impressionanti. Si parla di mezzo milione di morti, 2 milioni e mezzo di feriti, di 8 milioni di sfollati interni e di oltre 5 milioni di profughi all’estero, di 13 milioni di persone che hanno ancora bisogno di assistenza umanitaria. I dispersi sono oltre 50mila. La guerra ha di fatto costretto oltre metà dell’intera popolazione siriana a lasciare la propria casa. Il 66 per cento dei bambini, secondo un rapporto delle Nazioni Unite, ha perso un familiare, la propria casa o è rimasto ferito. “Ho pensato spesso in questi anni alle lamentazioni bibliche”, mi confessa il cardinale Zenari, da me incontrato nella Nunziatura di Damasco. “Nel Vangelo leggiamo della strage degli innocenti. Ma qui abbiamo vissuto le stesse cose, le abbiamo viste con i nostri occhi, abbiamo visto morire i nostri bambini”. Il cardinale Zenari è il capo della chiesalatina in Siria, ha visto ridursi ad un terzo, a 800mila fedeli, il numero della popolazione cristiana in quella che viene ancora definita storicamente “Terra santa”.

“Questa è una guerra per procura”, afferma senza esitazioni il cardinale Zenari. “È partita come uno scontro armato regionaleper diventare poi conflitto internazionale, con 10 eserciti direttamente coinvolti. Per alcuni mesi ci sono state solo dimostrazioni pubbliche dopo il venerdì della preghiera. Ma poi è subentrato qualcos’altro. Sono entrate nel paese le miliziearmate, sono intervenuti interessi politici esterni. La guerra finirà soltanto quando anche all’interno delle Nazioni Unite si sentiranno parole di riconciliazione non di guerra e di odio. Le devastazioni della guerra sono state già immense. Ma ancora più grandi sono le ferite degli animi”. Mi rendo conto di cosa è successo in questi anni, allontanandomi dal centro di Damasco, verso le periferie e le altre città dove si è combattuto come su una prima linea. Nomi ripetuti tante volte nei telegiornali, come Goutha, Douma, HomsAleppo. Ovunque macerie e palazzisventrati dai missili e dalle bombe. In certe zone ancora si fa fatica o è addirittura impossibile passare con le automobili. I negozi sono chiusi o saccheggiati, la poca gente che si vede in giro vive accampata tra le rovine. C’è ancora molta diffidenza, l’odio e le vendette non saranno facili da placare.
Ho vissuto tante altre guerre, ho visto tante altre regioni devastate dalla violenza e dall’intolleranza. Ma qui c’è qualcosa di diverso. C’è la sensazione di qualcosa di non detto, di non raccontato. Il sospetto che la copertura mediatica sia stata parziale, se non falsa addirittura, che la verità sia stata una delle prime vittime di questa guerra. La Siria come simbolo dell’ambiguità dell’informazione, terreno di scontro finale tra i mille interessi che avvelenano il Medio Oriente. Il governo di Assad è stato dipinto come quello di uno spietato dittatore, l’opposizione a lui come un movimento di liberazione. La denuncia di quelle che poi si sono rivelate inesistenti armi chimiche ha portato ad un passo dall’ennesima e catastrofica “guerra giusta”. Salvo poi ammettere che la vittoria del governo in carica ha segnato la prima e più decisiva sconfitta delle velleità integraliste del Califfato. “Sono in tanti che cominciano a capirlo”, mi dice padre Bajar, il guardiano del convento di Bad Touma. “Chiunque viene qui oggi, si rende conto in prima persona dei tanti pregiudizi e delle falsità che ha conosciuto nel proprio paese. Il nostro compito è anche quello di testimoniare ciò che è veramente successo. Per aiutare il popolosiriano a rialzarsi anche da questa prova”.

Padre Ibrahim è il parroco di Aleppo, diventato celebre per il suo coraggio sotto le bombe e la sua dedizione verso i propri concittadini. Nella seconda città della Siria e la sua capitale economica, la più segnata dal conflitto, vive oggi un terzo degli oltre 4 milioni di abitanti che erano. Padre Ibrahim è venuto tante volte in Italia in questi ultimi anni. Voleva sensibilizzare sulla situazione disperata che stava vivendo, quando nella città diventata un campo di battaglia restavano soltanto i più poveri e sfortunati, quelli non in grado di rifugiarsi altrove. E denuncia apertamente la gestione degli aiuti internazionali. “La Siria vive ancora sotto embargo, un embargo assurdo in questa guerra assurda”, mi dice. “Ho avuto spesso, e ho ancora, la sensazioneche gli aiuti non siano distribuiti equamente. Si preferisce destinarli ai profughi fuori dalla Siria, mentre ad Aleppo e all’interno della Siria controllata dal governo legittimo ne arrivano pochissimi. In questi anni ho letto che sono entrati in Siria 700 miliardi di dollari in armi e armamenti alle varie fazioni. E io faccio fatica a portare le poche migliaia di euro raccolte durante un viaggio tra le parrocchie e le diocesi in Italia”.
L’Ospedale degli Italiani, nel centro di Damasco, è diventato, senza tanto clamore, un punto di riferimento durante gli anni terribili della guerra, quando anche sulla capitale piovevano le bombe di mortaio degli antigovernativi. Suor Maria Luisa, pugliese, vive qui dal 1985 e rimpiange gli anni “della serenità e della pace”, prima che la situazione degenerasse fino a questo punto. Le parole con le quali parla di Assad e della sua famiglia suonano sorprendenti per chi legge i quotidiani o ascolta i telegiornali dei grandi network internazionali, soprattutto in Occidente. “Assad è un grande presidente”, afferma senza esitazioni. “Ama il suo popolo e il suo popolo lo ama. Lo hanno dipinto come un dittatore, ma queste sono falsità e menzogne. Lui ama la Siria, non l’ha mai tradita, ma anzi l’ha difesa dai suoi nemici. Si sente al servizio del popolo, siriano tra i siriani”.

Ancora più decisa è suor Yola Girges, siriana, che ho incontrato nel santuario di San Paolo. “La Siria è un esempio di tolleranza religiosa, un mosaico di religioni e di culture”, afferma. “Non sono riusciti a distruggerlo nemmeno con la guerra e questo si deve molto proprio ad Assad. Ha sfidato il mondo e noi siriani ne siamo tutti orgogliosi. Aveva promesso di liberare il paese dai terroristi e lo sta facendo. L’Occidente deve sapere che questa è stata una guerra ingiusta, che i media hanno dato un’immagine distorta e falsificata della realtà. Non sono mai state usate armi chimiche, non ci sono stati massacri di civili da parte dei governativi. Le armi che hanno devastato la Siria venivano dall’America, da Israele, dal Qatar, dall’Arabia Saudita. E le notizie erano falsificate ad arte dai Caschi Bianchi, gli stessi che denunciavano l’uso delle armi chimiche da parte di Assad, e da altre sedicenti associazioni umanitarie straniere. Ho conosciuto io stesso un padre che ha ammesso di avere usato il proprio bambino come vittima, al servizio della propaganda”. Suor Yola mi guarda sicura di sè, poi sorride. “So che può sembrarvi incredibile, sarà difficile che tu lo possa scrivere”, aggiunge. “Ma per noi, il presidente Assad, il popolo siriano e l’esercito governativo sono la Santissima Trinitàdella Siria. Senza di loro, il cristianesimo sarebbe forse scomparso del tutto dalla nostra terra”.
Lascio la Siria con tante altre domande ancora inespresse. Ho scelto di ascoltare la voce dei cristiani perché convinto che siano in buona fede e testimoni credibili di ciò che è successo. Ho tra le mani l’ultimo rapporto dell’Opac, l’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. Dopo un esame sul posto, si smentisce ufficialmente che sia stato usato gas nervino a Douma, così come a Hamadaniya e Karm al-Tarrab, tra il 2016 e il 2018. Le solite agenzie internazionali si limitano a poche righe, mentre due anni fa si rischiava un intervento diretto degli Stati Uniti per le stesse accuse. Lo stesso gioco usato in Iraq, in Afghanistan, in Libia, penso tra me. Penso anche al popolo curdo, oggi arruolato come fronte anti-Assad dalle potenzeoccidentali. Ho conosciuto il loro dramma, la loro aspirazionead essere nazione indipendente. Ne avevo fatto un reportage, descrivendolo come un “popolo senza patria”. Oggi 30 milioni di curdi si trovano divisi tra Turchia, Iraq, Iran e Siria, sono diventate le pedine di un gioco a scacchi molto più ampio e il loro sogno si allontana sempre di più, travolto dai vari interessicontrapposti.

Esco dalla Siria dalla frontiera con il Libano, altro paese sfortunato e ostaggio degli interessi stranieri. Mi accompagnano le ultime rovine lungo la strada, dopo aver respirato la polveredelle macerie di Aleppo, aver visto chiese e moschee, cupole e minareti sbrindellati dai missili. I check-point sono ovunque, scandiscono la realtà di una guerra che in realtà non è ancora finita. “Poiché è grande come il mare la tua rovina, chi potrà guarirti? O voi tutti, che passate per la via, guardate se c’è un dolore simile al mio dolore”. Sono parole che si leggono nella Bibbia e nel Vangelo, me le ha ricordate il cardinale Zenari. Non ce ne sono altre per descrivere ciò che ho visto in questi pochi giorni trascorsi con i francescani di Siria e della Custodia di Terrasanta. Sono immagini che non potrò mai dimenticare e che dovrebbero scuotere anche la coscienza del mondo.
di Giorgio Fornoni
                                                                   STRAGI

Trattativa, la Falange armata e i servizi segreti deviati. I giudici: “Ravvisabili gli indizi di concorso nelle stragi mafiose”

Trattativa, la Falange armata e i servizi segreti deviati. I giudici: “Ravvisabili gli indizi di concorso nelle stragi mafiose”

Nelle motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia, vero romanzo criminale degli ultimi 30 anni della storia di Italia, e nell'anno in cui sono caduti i 25 anni delle stragi del 1993 troviamo un intero capitolo, il numero 34, dedicato all'oscura sigla criminale che nei primi anni Novanta rivendicava ogni singolo fatto di sangue che sconvolgeva il paese
Nelle motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafiavero romanzo criminale degli ultimi 30 anni della storia di Italia, e nell’anno in cui sono caduti i 25 anni delle stragi del 1993 troviamo un intero capitolo, il numero 34, dedicato alla Falange armata, l’oscura sigla criminale che nei primi anni Novanta rivendicava ogni singolo fatto di sangue che sconvolgeva il paese: dai delitti della banda della Uno Bianca alle mattanze firmate dalla Cupola con telefonate che “partivano dalle sedi coperte del Sismi”. Per i giudici di Palermo “è forte il sospetto che il fenomeno della Falange Armata abbia potuto avere origine nell’ambito di servizi di sicurezza dello Stato” e anche se non è stata raggiunta una prova sul “possibile concorso nei fatti delittuosi qui in esame da parte di esponenti dei cosidetti ‘servizi segreti deviati’,va detto che gli indizi … sono ravvisabili…“. Ed è così nello iato tra verità processuale e verità sostanziale restano i due profili affrontati dai pm e su cui i giudici hanno scritto 81 delle 5252 pagine delle motivazioni. Anche se il nome Falange armata, che non compariva nel capo di imputazione, è citato decine volte.

“Cosa nostra usò la sigla per rafforzare la minaccia contro lo Stato”
Nel capo di imputazione, infatti, non vi è traccia della sigla né di contestazione ma “una corposa parte dell’istruttoria dibattimentale è stata dedicata … al fenomeno in relazione a due diversi, più o meno esplicitati, profili. In particolare, sotto un primo profilo, la pubblica accusa ha fatto riferimento all’utilizzo dellerivendicazioni degli attentati ad opera della Falange Armata come forma di rafforzamento della minaccia utilizzata da ‘cosa nostra’ nei confronti dello Stato. Sotto un secondo profilo, invece, la pubblica accusa si è riferita alla Falange Armata con riguardo al concorso nel reato di minaccia da parte di terzi ignoti riconducibili all’area dei cosiddetti ‘servizi segreti deviati'”. La conclusione dei magistrati, presieduti da Alfredo Montalto anche giudice estensore delle motivazioni, lascia a bocca aperta. “Senza volere affermare, dunque, ovviamente, che il fenomeno della Falange Armata sia riconducibile ad associazione mafiose, dal momento che si è piuttosto trattato di un sigla utilizzata da ‘diverse componenti’…  tuttavia, può ritenersi raggiunta la prova che ‘cosa nostra’ abbia volutorafforzare la minaccia, allora in corso, diretta al Governo con le rivendicazioni in esame, nelle quali si prospettavano, infatti, ulteriori bombe dirette a provocare, questa volta, centinaia di vittime (ed in proposito, allora, il pensiero non può non andare all’attentato che sarebbe stato organizzato qualche mese dopo allo stadio Olimpico di Roma (23 gennaio 1994, ndr)  con l’intendimento di provocare, appunto … un centinaio di vittime tra i Carabinieri lì in servizio”. Prima c’erano già state le bombe del 1993: via Fauro (4 maggio, Roma), via Georgofili (27 maggio, Firenze), via Palestro (27 luglio, Milano), San Giovanni al Velabro e San Giorgio al Velabro (la notte tra il 27 e il 28 luglio, Roma). E ancora si piangeva per Capaci (23 maggio 1992) e via D’Amelio  (19 luglio 1992)

Come sappiamo l’attentato con la Lancia Thema bordeaux, imbottita di tritolo e tondini di ferro, fallì e probabilmente, come scrivono le toghe siciliane, in qualche modo la democrazia fu salva: il Paese sarebbe “caduto in ginocchio” sotto i colpi spietati di cosa nostra .”E ciò conferma ulteriormente quanto si è già concluso riguardo alla minaccia di ‘cosa nostra’ ed a quelle che furono definite ‘bombe del dialogo‘… perché è del tutto evidente che in quel frangente la strategia di ‘cosa nostra’ non era più quella della contrapposizione frontale che aveva condotto alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, bensì quella sopravvenuta con la quale si intendeva trarre benefici dalle aperture al dialogo ed alla trattativa che erano giunte ai vertici di ‘cosa nostra’ attraverso l’iniziativa dei Carabinieri con Vito Ciancimino'”.
“Riina rozzo non poteva pensare a utilizzo della sigla”
C’è poi l’altro aspetto su cui non c’è prova, ma indizi e sospetti inquietanti.  Sul “secondo profilo … quello del possibile concorso nei fatti delittuosi qui in esame da parte di esponenti dei cosidetti ‘servizi segreti deviati’, va detto che gli indizi, che pure sono ravvisabili, non appaiono idonei ad assurgere al rango di prova. V’è, innanzitutto, il fatto che con la sigla della Falange Armata sono stati minacciati e rivendicati in quegli anni innumerevoli attentati – ricordano i giudici – nei confronti di altrettanto innumerevoli esponenti delle Istituzioni ed è certo che l’utilizzo di tale sigla non è riconducibile (solo) ad un preciso gruppo di soggetti (si è visto sopra il sostanziale fallimento del processo penale nel quale si era ritenuto di avere individuato uno dei responsabili)”, l’uomo che fu individuato a Taormina e processato è stato assolto. “Certo, è forte il sospetto che il fenomeno della Falange Annata abbia potuto avere origine nell’ambito di servizi di sicurezza dello Stato (in tal senso si sono espressi pressoché unanimemente tutti gli esponenti delle Istituzioni chiamati a testimoniare in questo processo…). Ed appare, nel contempo, veramente improbabile che un mafioso “rozzo” come Riina abbia potuto autonomamente pensare di utilizzare la sigla della Falange Armata per rivendicare gli attentati di ‘cosa nostra’.  Chi allora aveva pensato a servirsi della sigla? “Ma all’interno di quest’ultima (cosa nostra, ndr), come emerso in questo ed in molteplici altri processi già definitivamente conclusi, v’erano sicuramente altri soggetti meno “rozzi” e adusi anche a rapporti con esponenti degli apparati di sicurezzache avrebbero potuto instillare o, quanto meno, in qualche modo provocare, quell’idea di rivendicare gli attentati con la sigla della Falange Armata. Si tratta, però, come si vede, di mere ipotesi che, per quanto altamente plausibili, non possono supportare, in termini di prova processuale, alcuna conclusione sull’effettivo concorso di esponenti degli apparati di sicurezza dello Stato nei fatti di minaccia che sono oggetto del presente processo”.

Le telefonate, le sedi del Sismi e i 15 agenti segreti addestrati all’uso delle armi e degli esplosivi
Tra gli esponenti delle istituzioni chiamati a testimoniare nel processo c’è l’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, già diplomatico negli anni ’80 deportato al vertice del Cesis (Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza) tra il 1991 e il 1993 dall’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, anche se la nomina era di pertinenza del presidente del Consiglio, all’epoca Giulio Andreotti. Fulci, come ha raccontato ai giudici durante la sua testimonianza al processo, non avrebbe voluto accettare quell’incarico: “Ma non ci fu verso, fu proprio il Presidente Cossiga che fece appello, mi trattenne nel suo studio a lungo dicendomi: no, noi abbiamo bisogno di qualcuno che venga … Al di fuori di quel mondo. Io infatti ero il primo ambasciatore ad essere mai nominato Capo dei Servizi Segreti”. C’era bisogno di qualcuno fuori da quegli ambienti che probabilmente anche le più alte cariche ritenevano inquinati.
Catapultato nell’universi paralleli degli 007 è stato Fulci a parlare di quei quindici agenti segreti addestrati all’uso delle armi e degli esplosivi che sospettava potessero essere collegati con le bombe del 1993 e anche delle telefonate della Falange Armata che “partivano dalle sedi coperte del Sismi”. Fulci incaricò un analista del Sisde, Davide De Luca (deceduto, ndr) di lavorare sulle rivendicazioni. “E lui venne da me portando ad un certo punto … Ricordo ancora che entrò con l’aria un po’ preoccupata nel mio ufficio dicendomi: guardi, queste sono le mappe, questa è la mappa da dove provengono le telefonate, questa è la mappa delle sedi periferiche di allora, perché poi queste sedi cambiano, io francamente non so se erano le stesse, se sono gli stessi, eccetera… E addirittura aveva un lucido nelle mani, dice: ecco, guardi, le sovrappone, quasi combaciano, sono quasi … lo dissi… Da un lato da dove partivano le telefonate e dall’altro dove erano le sedi periferiche in Italia del Sisimi ….”. Ma perché pezzi del Sismi avrebbero dovuto rivendicare le stragi di mafia? Fulci non lo dice, spiega però di “essersi convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di Stay Behind, facevano esercitazioni, creare il panico in mezzo alla gente e creare le condizioni per destabilizzare il Paese”.

L’ambasciatore, prestato a forza all’intelligence, scopre anche che dentro la VII divisione del Sismi esiste un servizio speciale coperto composto da 15 agenti segreti super addestrati. “…erano gli unici nei Servizi che fossero stati addestrati per manovrare esplosivi, erano gli unici, i servizi segreti servono solo per raccogliere informazioni, non per fare attività … sono persone che sono pronte se c’è qualsiasi emergenza a reagire con la forza insomma”. La cellula si chiamava Ossi.
Nei due anni al vertice del Cesis, Fulci diventa anche bersaglio di minacce di ogni genere, scopre addirittura di essere spiato nella sua stessa abitazione: chiede e ottiene, quindi di avere tutti i nomi che fanno parte di quel reparto speciale, scopre che la bonifica che aveva ordinato nella casa (che gli è stata messa a disposizione dallao Stato e che è piena di microspie) non è stata eseguita o meglio tutte le attrezzature presenti hanno continuato a funzionare e registrare. Quei nomi “li copiai su un foglietto che nascosi poi nella mia libreria, dicendo a mia moglie che se fosse successo qualcosa era lì che bisognava cercare: dopo aver lasciato l’incarico ed essere andato a New York alle Nazioni Unite provai a dimenticare quella brutta esperienza”.

L’ultima minaccia a Riina: “Chiudi la bocca”
A bombe esplose con la vittima più giovane di soli 50 giorni (via Georgofili, ndr) e con l’eco mediatica arrivata negli Usa sulle pagine del New York Times, Fulci recupera l’appunto, torna in Italia e lo consegna al generale dei carabinieri Luigi Federici spiegandogli che si è deciso a fare questo per essere certi che i servizi non c’entrano niente con gli attentati e quelli sono “i nomi delle persone che sanno maneggiare esplosivi all’interno dei servizi”. Ai quindici nomi, però, Fulci ne aggiunge un altro: quello del colonnello Walter Masina, che però non fa parte della VII divisione e degli Ossi. “Non avrei dovuto farlo ma volevo fargliela pagare, dato che Masina era quello che spiava la mia abitazione”. La denuncia di Fulci cade nel vuoto, anzi è lui a finire nel mirino perché sospettato di aver “montato un depistaggio con gli americani“. Intanto le stragi si fermano, la prima Repubblica è ormai franata sotto il peso dell’indagine di Mani pulite, i partiti vengono azzerrati dagli arresti e dalle rivelazioni del pool di Milano. Ed è così che sembra dissolversi anche l’oscura sigla. Un sparizione temporanea perché dal cono d’ombra la Falange rispunta non per rivendicare ma per minacciare. Nel dicembre del 2013 il boss dei boss in carcere milanese di Opera riceve una lettera a firma di Falange Armata: “Riina chiudi la bocca, ricordati che i tuoi familiari sono liberi, al resto ci pensiamo noi”. Sono i mesi in cui il boss corleonese parla tanto, probabilemente perfettamente consapevole di essere ascoltato e intercettato, durante l’ora d’aria. Ma di quelle intercettazioni, di quesi discorsi Riina si saprà solo molti mesi dopo. Ma Falange Armata lo sapeva già

sabato 28 luglio 2018

Malagrotta, percolato non estratto dalla discarica: “Effetti devastanti”. Sequestrati 190 milioni di euro alla società E. Giovi

Malagrotta, percolato non estratto dalla discarica: “Effetti devastanti”. Sequestrati 190 milioni di euro alla società E. Giovi
L’impianto ha servito la Capitale per tre decenni, fino al primo ottobre 2013. Oggi il liquido è ritenuto dagli inquirenti “la causa dell'inquinamento delle falde acquifere". Il sequestro colpisce la società parte integrante del gruppo industriale che fa riferimento a Manlio Cerroni, indagato insieme ad altre 5 persone per traffico illecito di rifiuti. I suoi difensori: "Demonizzazione del gruppo"
“Conseguenze devastanti per l’ambiente circostante la discarica” destinate ad “aumentare esponenzialmente” con “il permanere di questa situazione di illegittimità”. Sono le parole utilizzate dal gip Costantino De Robbio nel provvedimento di sequestro per circa 190 milioni di euro alla società E. Giovi, parte integrante del gruppo industriale che fa riferimento a Manlio Cerroni, il “Supremo della monnezza” romana e proprietario con il suo Colari della discarica di Malagrotta. L’impianto, il più grande d’Europa nel genere, ha servito la Capitale per tre decenni, fino al primo ottobre 2013, quando venne chiusa dall’allora neo-sindaco Ignazio Marino. I rifiuti però sono rimasti lì e oggi il percolato è ritenuto dagli inquirenti “la causa dell’inquinamento delle falde acquifere” sottostanti il sito di smaltimento. Nell’atto del giudice viene evidenziato che “ancora oggi la società E. Giovi non ha provveduto all’adempimento delle prescrizioni e che la discarica non è gestita in modo legittimo tale da impedire il protrarsi della situazione di fuoriuscita del percolato che è conseguenza diretta dell’inquinamento dei terreni circostanti”. L’accumulo del percolato non estratto “è peraltro ormai così rilevante – si legge ancora nel provvedimento – da essere visibile dall’esterno: dopo avere riempito la camera sottostante la discarica il liquido si è infatti accumulato nel Poldermescolandosi ai rifiuti solidi e facendoli tracimare dalla sommità superiore, da cui ha cominciato a fuoriuscire liquido inquinante che si è riversato nelle strade circostanti”.
Gli indagati sono sei. Manlio Cerroni, patron del Colari attualmente commissariato per interdittiva antimafia, e altre cinque persone. Il reato ipotizzato è traffico illecito di rifiuti e associazione a delinquere. Il gip ha disposto anche il sequestro dell’azienda E. Giovi Srl. La somma sequestrata corrisponde “al risparmio di spesa dal 2012 ad oggi per l’omessa” estrazione “del percolato nella misura della minore somma quantificata dal consulente da ritenersi comprensiva – si legge nel provvedimento – di ogni successivo reinvestimento o trasformazione e di qualsiasi vantaggio economicamente valutabile nei confronti degli indagati”.
L’estrazione del percolato ha dei costi per l’impresa che gestisce la discarica ma “secondo quanto risulta dalle indagini svolte dalla Procura tali prescrizioni non sono state rispettate e la E. Giovi srl ha fittiziamente dichiarato di avere compiuto le operazioni di emungitura per evitare di sostenere i rilevanti costi delle operazioni”. Il “profitto del reato”, costituito dai mancati costi per l’estrazione del percolato, secondo il pm, “sarebbe stato dirottato– aggiunge il gip – alle società consorzio Colari e Petromarine Italia Srl, appartenenti al medesimo gruppo di società E. Giovi, all’evidente scopo di occultare tali ricavi a chi leggesse il bilancio”.
Attualmente la E. Giovi è stata affidata per la Custodia Giudiziaria al Commissario prefettizio, Luigi Palumbo, che già amministrava i due tmb inseriti nel ciclo di smaltimento della raccolta indifferenziata del Comune di Roma. Il provvedimento non avrà ripercussioni, in questo senso, sulla quotidianità del ciclo di smaltimento capitolino e sui servizi – regolati dalla Regione Lazio – che la E. Giovi fornisce ad Ama.

LA DIFESA DI CERRONI L’ATTACCO DI COLARI ALLA PROCURA – In serata è arrivata alle redazioni una nota inviata dallo studio legale che tutela il gruppo Cerroni, smentendo totalmente l’ipotesi dei magistrati. “Prendiamo atto – si legge nella nota – dell’ennesima iniziativa della Procura di Roma che, di fronte al disastro ambientale (denunciato da anni dall’Avv. Cerroni) in cui versa la città di Roma a causa delle gravi inadempienze delle Istituzioni chiamate a risolvere i problemi dei rifiuti, continua nella pervicace operazione di demonizzazione del Gruppo Colari che da anni, nell’assoluto rispetto delle leggi, ha assicurato in modo efficiente ed economico alla capitale d’Italia il trattamento dei milioni di tonnellate di rifiuti prodotti ogni anno dai suoi cittadini”. Non solo. “L’assunto della Procura – proseguono gli avvocati –  è del tutto infondato ed a dimostrarlo sono i documenti che, senza giungere a questa iniziativa, si sarebbero potuti acquisire. La società ha provveduto a smaltire presso gli impianti terzi autorizzati in diverse Regioni italiane il percolato prodotto dalla discarica ed oggi, dopo aver atteso cinque anni un’autorizzazione all’esercizio di un proprio impianto a Malagrotta, provvede al trattamento autonomo del percolato. L’autorizzazione all’esercizio e’ stata concessa solo lo scorso 10 ottobre, dopo ben 5 anni di attesa, sollecitazioni e diffide a fronte dei 120 giorni previsti dalla legge. Il percolato dichiarato unilateralmente dall’Arpa di Roma pericoloso e’, invece, da prelievi e analisi risultato non pericoloso ed e’ da questo equivoco che e’ scaturita tutta la liturgia mediatica del sequestro di oggi”. Infine, ‘la società non ha nulla da nascondere. Lo stesso non può dirsi dell’operato della Pubblica Amministrazione. La società si riserva di assumere tutte le iniziative stragiudiziali e giudiziali opportune al fine di tutelare i diritti della personalità e l’attività economica delle persone e delle organizzazioni interessate nonchè dei collaboratori e dipendenti”.