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martedì 8 aprile 2025

Omicidio Scopelliti, 34 anni dopo nuovi rilievi della polizia sull’auto dove morì il giudice di Alessia Candito Omicidio Scopelliti, 34 anni dopo nuovi rilievi della polizia sull’auto dove morì il giudice Gli esami della scientifica sulla Bmw 318i mai svolti prima: il mezzo riportato sul luogo del delitto 08 Aprile 2025 Aggiornato alle 12:46 3 minuti di lettura Non è chiusa l’indagine sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, i magistrati non hanno rinunciato a scoprire la verità su quel delitto che le più recenti ricostruzioni giudiziarie considerano l’alfa della stagione delle stragi. A quasi 34 anni da quel 9 agosto 1991, quando il giudice Antonino Scopelliti fu assassinato nella sua auto a Piale, nei pressi di Villa San Giovanni, in Calabria, la polizia torna sul luogo del delitto per nuovi rilievi scientifici. Per gli accertamenti, gli specialisti sono arrivati da Roma e da ore lavorano attorno all’auto del giudice, una Bmw 218, che è stata riportata sul luogo dell’attentato per verificare in concreto proiezioni, calcoli e proiezioni in 3D che sulla carta tornano. L’ultima svolta di un’inchiesta, che il procuratore facente funzioni della Dda Reggio Calabria Giuseppe Lombardo ha iniziato da pm e con determinazione negli anni non ha mai mollato, arriva grazie al lavoro sviluppato sull’arma sequestrata nel 2018 su indicazione del pentito Maurizio Avola, collaboratore assai controverso, che di certo ha mentito su molte cose – e ancora non ha spiegato perché o per chi – ma nel suo racconto ha dovuto mischiare verità e bugie. L’indicazione sul fucile - una doppietta Arrizabalà calibro 12 di fabbricazione spagnola, riprodotta fedelmente dalla Beretta e oggi usata per le prove tecniche – sembra essere fra quelle corrette. Lo dicono documenti e accertamenti balistici sull’arma che per il pentito è stata usata per quell’agguato. In un certo senso, quell’arma è stata un errore e una firma. Quella doppietta – hanno raccontato i rilievi – era prodotta dalla ditta spagnola “Zabala Hermanos”. Si tratta di un fucile da caccia con mirino di precisione, ancora consigliato sui forum di appassionati per la caccia alle beccacce. Le canne sono state però modificate. Di fabbrica misurano sessantasei centimetri, quelle dell’arma rinvenuta nel 2018 “circa 47 cm”, segno che sono state accorciate. Una pratica assai spesso utilizzata dagli armieri dei clan per allargare la rosata di sparo o rendere l’arma più facile da nascondere o gestire durante un agguato. In quello in cui il giudice è stato ucciso, due sicari hanno affiancato l’auto e presumibilmente quello seduto dietro ha sparato. Era il 9 agosto del 1991. Il giudice tornava alla casa di famiglia dopo una giornata trascorsa al mare. Stava preparando l’accusa per il maxiprocesso in Cassazione contro i Corleonesi, quelle ore in spiaggia erano la sua quotidiana boccata d’aria. Non era scortato, non aveva alcun tipo di protezione. Alle 17.21, mentre percorreva la stretta strada, tutta tornanti, che collega la frazione Ferrito di Villa San Giovanni a Piale di Campo Calabro (Reggio Calabria) i sicari lo hanno sorpreso. L’auto del giudice è finita in un fosso fra gli ulivi e lì è stata ricollocata dagli uomini della scientifica. Sulla strada c’è anche una moto di grossa cilindrata uguale a quella usata per il delitto, un'Honda Gold Wing, che si differenzia da quella dei killer solo nel colore, bianca anzichè amaranto. È lo stesso modello trovato dagli investigatori sulla scena del crimine quella sera di agosto di 34 anni fa. È iniziata da lì un’indagine storta, mozza, sfociata in due processi che alla sbarra hanno portato l’élite di Cosa Nostra, senza mai arrivare a una condanna. L’ipotesi principale è che quel delitto sia stato un “favore” chiesto dalle cosche siciliane ai clan calabresi, tuttavia nelle prime fasi di indagini, è misteriosamente andato perso per poi riemergere solo a processo un dato fondamentale: per quell’omicidio è arrivata una rivendicazione di Falange Armata, la sigla – hanno ormai accertato altre inchieste e procedimenti – servita a rivendicare omicidi, bombe e stragi che hanno insanguinato l’Italia fra il 91 e il 94. Una lunga scia di sangue che va dal brutale assassinio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, freddato a Milano dal clan Papalia per aver scoperto i rapporti fra il boss don Mico e i servizi, ai tre attentati calabresi contro i carabinieri, con in mezzo le bombe della stagione degli attentati continentali. Delitti che portano la firma tanto di Cosa Nostra come della ‘Ndrangheta, ma incomprensibilmente per l’omicidio del giudice, non è mai stato portato un calabrese a processo. Eppure, per dinamiche mafiose ormai accertate, è inverosimile. Soprattutto in quel momento storico. A Reggio Calabria ci si avviava verso la fine della seconda sanguinosa guerra di ‘ndrangheta, conflitto fratricida da 800 morti ammazzati in cinque anni, chiuso, ha detto il pentito Giacomo Ubaldo Lauro, uno dei primi collaboratori della storia dei clan calabresi, “con una pace che pace non è”. Impossibile che i siciliani intervenissero senza chiedere permesso. Anche perché, ha raccontato un altro pentito, Salvatore Annacondia, potrebbe esserci stato un summit per discutere di quell’omicidio. Risale a qualche mese prima, è convocato nella casa- fortino dello storico clan dei Tegano, frequentata spesso non solo da uomini di rango dei clan calabresi, ma anche da emissari dei Santapaola. Improvvisamente viene interrotto da un blitz di cui non si trova traccia. E’ della Criminalpol all’epoca diretta da Mario Blasco. Il primo investigatore a arrivare sulla scena dopo l’omicidio Scopelliti. Solo nel 2019,per l’omicidio del giudice Scopelliti il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha iscritto sul registro degli indagati 17 persone. E per la prima volta in elenco sono comparsi anche i calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. Insieme, quasi totale rappresentanza dei vertici della ‘Ndrangheta visibile, più almeno due elementi della componente riservata dei clan calabresi. Una cupola senza capi, un organismo collegiale e sconosciuto ai ranghi bassi dell’organizzazione, l’unico in grado di discutere con i “cugini siciliani” un affare delicato come l’omicidio di un giudice.

venerdì 26 maggio 2023

 


1993, l’anno buio della Repubblica: un mistero che resiste da 30 anni

1993, l’anno buio della Repubblica: un mistero che resiste da 30 anni
(agf)
Il 27 maggio la strage di via dei Georgofili a Firenze inaugurò la stagione delle bombe mafiose contro i monumenti. Per quell’attentato sono stati condannati gli esecutori e chi li armò. Ma la caccia ai mandanti occulti non si è mai fermata
 3 MINUTI DI LETTURA

Ci sono ancora i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri scritti sul fascicolo dell'inchiesta sui mandanti delle stragi del biennio 1993 e 1994. Un'inchiesta prorogata più volte dal giudice per le indagini preliminari su richiesta dei magistrati della procura di Firenze. I pm l'hanno motivata fornendo al gip nuovi elementi che sostengono la necessità di continuare ad indagare sull'ex premier e sul suo amico e co-fondatore di Forza Italia.

All'inizio ci sono state le dichiarazioni in aula a Reggio Calabria del boss Giuseppe Graviano, autore delle stragi, il quale ha saputo calcolare le uscite pubbliche, lanciando messaggi a Berlusconi e allo stesso tempo sostenendo che l'ex presidente del Consiglio non aveva rispettato "i patti" con la famiglia Graviano. Il boss di Brancaccio, Matteo Messina Denaro e Leoluca Bagarella sono i protagonisti delle bombe a Roma, Milano e Firenze. E dopo vent'anni di detenzione trascorsi in silenzio, Giuseppe Graviano ha iniziato a lanciare pesanti messaggi dal carcere rivolti a Berlusconi, nel tentativo di tornare libero, o ancor di più, di ottenere una grossa somma di denaro. Tutta questa storia, legata anche alla strage di via dei Georgofili del 26 maggio 1993, ha portato i pm fiorentini ad indagare sui due fondatori di Forza Italia, per accertare se vi sia stato un dialogo fra loro e i boss di Cosa nostra. Non risulta alcuna denuncia per calunnia presentata contro il capomafia palermitano.


Prima che iniziasse a fare dichiarazioni in aula, Giuseppe Graviano, intercettato anni fa nella sala colloqui con il figlio Michele, si sentiva potente, grazie ai segreti di quella stagione delle bombe alNord, e parlando di Berlusconi e dei suoi affari diceva: "Queste persone così potenti dipendono da me". Dopo di che fu visto alzarsi dalla sedia, allargare le braccia e battersi il petto con la mano destra scandendo: "Qui tutto dipende da me". Sono trascorsi gli anni, e qualcosa è cambiato. È sceso in campo il factotum dei Graviano, Salvatore Baiardo, anche lui in giro a seminare messaggi dal tono ricattatorio e allo stesso tempo il boss ha modificato la sua strategia in carcere: non più silenzio, ma sussurri.


Il 1993 è stato uno degli anni più bui della vita della Repubblica, con Roma, Milano e Firenze che divennero scenario di stragi terroristico eversive. Le bombe provocarono la morte di dieci innocenti, il ferimento di 96 persone, danni ingenti e irreparabili al patrimonio artistico. Portarono distruzione, paura e insicurezza, nell'arco di 75 giorni, dal 14 maggio al 28 luglio. L'aggressione mafiosa rappresentò il momento di massimo pericolo per la nostra democrazia. All'1,04 del 27 maggio in via dei Georgofili esplode un ordigno collocato in un Fiorino. Muoiono Angela e Fabrizio Nencioni, le loro bambine Nadia e Caterina, e lo studente Dario Capolicchio, mentre dormivano nelle loro abitazioni. In 38 restano feriti, e viene distrutta la Torre dei Pulci, sede dell'Accademia dei Georgofili, e gravemente danneggiati la Chiesa di Santo Stefano e Cecilia e il complesso degli Uffizi, con danni patrimoniali enormi, per circa trenta miliardi di lire. Gli effetti dell'esplosione si sono propagati per circa dodici ettari nel centro di Firenze. L'allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi ha temuto in quel periodo che stesse per accadere qualcosa di oscuro per la tenuta democratica del Paese.


I processi che si sono conclusi con pesanti condanne hanno accertato alcune verità. I magistrati evidenziano come "dai processi celebrati, sono emersi spunti investigativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell'ideazione e nell'esecuzione delle stragi". Per questo motivo vanno ricordati "alcuni interrogativi rimasti insoluti le cui risposte potrebbero squarciare i veli che avvolgono i cosiddetti mandanti a volto coperto".
Come ha detto nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta sulle stragi, partecipando ad un incontro all'università di Pisa: "Si continuerà a indagare non solo perché questo è un obbligo giuridico, ma perché è la memoria delle vittime innocenti e del pericolo generato per la nostra democrazia, è la coscienza critica e morale della società civile che impone questo dovere, la ricerca della verità senza di che non c'è giustizia. E ci auguriamo di trovare il filo conduttore che ci consenta di individuare tali responsabilità, ove esistenti". I quesiti irrisolti e gli spunti investigativi riguardano i contatti fra un appartenente all'estrema destra come Paolo Bellini, condannato per la strage del 2 agosto a Bologna e i mafiosi corleonesi nel periodo in cui pensavano alle bombe al Nord. I pm vogliono accertare il ruolo e l'identità di una donna che avrebbe preso parte alla strage di Milano, e se la decisione dei vertici di Cosa nostra di queste stragi fu condivisa con soggetti estranei. E perché dopo aver fallito l'attentato all'Olimpico il 23 gennaio 1994 la campagna stragista si fermò. A marzo di quell'anno si tennero le elezioni politiche, mutò il quadro politico istituzionale, Silvio Berlusconi divenne il presidente del Consiglio e lo stragismo marcato Cosa nostra si arenò. Le indagini adesso proseguono.
 

sabato 22 aprile 2023

                                                                         MAFIE,2023


CHI PARLA DI MAFIA IN TV SI BRUCIA – COSA HA DETTO MASSIMO GILETTI IERI AI MAGISTRATI DI FIRENZE CHE INDAGANO SULLE STRAGI DEL 1993? LA VICENDA C’ENTRA CON LA CHIUSURA DI “NON È L’ARENA”? ENRICO DEAGLIO RICOSTRUISCE LA STORIA DEI FRATELLI GRAVIANO, DELLA PRESUNTA FOTO DI BERLUSCONI CON I BOSS E DEL “GELATAIO” BAIARDO: “IL GRANDE ERRORE DI GILETTI È STATO DI TOCCARE DEI FILI SCOPERTI, DA CUI L'ITALIA ORMAI PACIFICATA DA TRENT'ANNI HA CERCATO DI STARE LONTANA. PER FORTUNA DI TUTTI, DELLA STORIA D'ITALIA SOPRATTUTTO, È STATO FERMATO IN TEMPO”

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Estratto dell’articolo di Enrico Deaglio per “La Stampa”

 

MASSIMO GILETTI FUORI DALLA PROCURA DI FIRENZEMASSIMO GILETTI FUORI DALLA PROCURA DI FIRENZE

Non c'è nulla che dia più fastidio alla mafia che la televisione. Non le piace: la tv comunica un senso della realtà difficile da dimenticare e poi raggiunge troppe persone, che poi magari prendono coraggio; la tv mostra i mafiosi per quello che sono, spesso dietro le sbarre, deboli, tutt'altro che invincibili; e loro invece sono abituati ad essere rispettati. Neanche la parola scritta, gli piace; ma quella la leggono in pochi. La televisione è peggio.

 

[…]

 

Il binomio mafia-televisione è tornato di attualità in questi mesi e sta al centro di una notevole conversazione pubblica: è il "caso Giletti", con le sue clamorose rivelazioni in diretta, culminate con la chiusura improvvisa del programma e un retrogusto di mistero.

salvatore baiardo massimo giletti non e l'arena 6SALVATORE BAIARDO MASSIMO GILETTI NON E L'ARENA 6

 

Chi è veramente questo Baiardo, un gelataio capace di profetizzare, con due mesi di anticipo, il giorno della cattura di Matteo Messina Denaro? Esiste davvero la fotografia del boss mafioso insieme all'imprenditore e al generale dei carabinieri in piacevole colloquio sul lago d'Orta? Davvero tutto l'arresto di Salvatore Riina fu una colossale messa in scena? E chi sono veramente questi tenebrosi fratelli Graviano, ancora oggi in grado di ricattare lo Stato?

 

[…]

 

I fratelli boss

enrico deaglio 1ENRICO DEAGLIO 1

Partiamo dai misteriosi fratelli Graviano. Sono due, Filippo (nato nel 1961) e Giuseppe (nato nel 1963), boss del quartiere Brancaccio di Palermo. Passati sotto i radar negli anni Ottanta (sono condannati al maxiprocesso, ma a pochi anni), diventano potentissimi e ricchissimi "urban developers" di Palermo: la loro opera più grandiosa è un grande albergo di lusso, il San Paolo Palace Hotel, al centro del loro malfamato quartiere, che diventa il luogo di incontro dell'élite della città, dai politici ai magistrati, agli investigatori e ai sindacalisti, che entrano nella hall sfiorando i locali della "camera della morte" in cui la mafia del quartiere ha eliminato qualche centinaio di nemici. Nell'attico abita la madre dei due, cui il clan è devoto, come al vero Capo (Invece che Godfather, la chiamano Godmother).

 

All'inizio degli anni Novanta il clan dichiara di voler trasferire la propria residenza e la propria attività economica nel Nord Italia e in Svizzera. Non figurano tra i sospetti, né tra gli esecutori delle stragi del '92-'93, ma vengono considerati i mandanti dell'omicidio di don Puglisi avvenuto nel settembre 1993, nel loro quartiere. Vengono arrestati a Milano il 27 gennaio 1994, in un ristorante alla moda con le loro fidanzate. Sono al 41 bis da allora.

 

salvatore baiardo massimo giletti non e l'arena 4SALVATORE BAIARDO MASSIMO GILETTI NON E L'ARENA 4

E un signore di Omegna, provincia di Verbania; tra il '91 e il gennaio 1994 ha organizzato nella cittadina la residenza dei Graviano, facendo loro da autista, organizzando le loro vacanze e introducendoli nell'ambiente cittadino. Per questo motivo subì un arresto nel 1995 e fu condannato in appello a Palermo nel 1999 per "favoreggiamento" (essendo cadute le accuse di associazione per delinquere di stampo mafioso e di riciclaggio di denaro).

 

SALVATORE BAIARDO SU TIKTOKSALVATORE BAIARDO SU TIKTOK

È il personaggio televisivo del momento; ha predetto l'arresto di Messina Denaro, ha promesso altre grandi rivelazioni e ha mostrato (mano sua) a Giletti una fotografia (tipo Polaroid) in cui si vedono – a suo dire – Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino seduti a un tavolino di un bar in quella che sembra la piazza principale di Orta-San Giulio, luogo incantevole e turistico. Vestiti primaverili, probabile anno 1992.

 

Giletti ha riferito questa circostanza ai pm di Palermo che indagano sulla vicenda; gli stessi hanno intercettato Baiardo che parla con Giletti della fotografia; Baiardo non risulta incriminato per alcunché. In seguito a questi fatti, Urbano Cairo, editore de La7, ha chiuso la trasmissione.

 

Francesco Delfino (generale dei carabinieri e superagente del Sismi, morto in disgrazia nel 2014) viene indicato come il terzo uomo della fotografia, insieme a Berlusconi e Graviano. Possibile? Un tempo si sarebbe detto: impossibile e assurdo; ora però non più. Da qualche tempo si parla parecchio del suo vero ruolo nella cattura di Riina.

 

enrico deaglioENRICO DEAGLIO

Secondo Graviano stesso, e Baiardo di rimando, il famoso pentito Balduccio Di Maggio, che guidò i carabinieri alla cattura del capo dei capi, sarebbe stato convinto a farsi arrestare, a Borgomanero, pochi chilometri da Omegna, in cambio di molto denaro dal Graviano medesimo, in accordo con il generale (non nuovo a queste operazioni spregiudicate).

 

Delfino, in compenso dell'aiuto ricevuto da Graviano, gli avrebbe fatto avere una "favolosa protezione" per le sue malefatte e i suoi affari. Che Delfino potesse conoscere Berlusconi non deve stupire; i due erano in contatto fin dai tempi dei sequestri di persona a Milano. Il primo come investigatore, il secondo come potenziale vittima. Berlusconi, peraltro, quando costruì Milano Tre, ci volle una stazione dei carabinieri, che regalò ai carabinieri stessi, che dall'epoca sono grati (Ed è tornato alla mente che Giuseppe Graviano ha fatto sapere di aver avuto un appartamento a disposizione a Milano 3 e l'ha collocato «nei pressi della stazione dei carabinieri»).

 

salvatore baiardo massimo giletti non e l'arena 1SALVATORE BAIARDO MASSIMO GILETTI NON E L'ARENA 1

La gloria di Delfino per l'arresto di Di Maggio e quindi di Riina durò poco: nel 1998 fu lui stesso arrestato per aver estorto un miliardo alla famiglia di un notissimo industriale bresciano, suo amico, Giuseppe Soffiantini, in cambio della sua liberazione da un lunghissimo rapimento. Si scoprì all'epoca che non era la prima volta che il generale si comportava così; amava molto il lusso e perdeva al gioco.

 

SILVIO BERLUSCONI FILIPPO GRAVIANO FRANCESCO DELFINO - ILLUSTRAZIONE IL FATTO QUOTIDIANOSILVIO BERLUSCONI FILIPPO GRAVIANO FRANCESCO DELFINO - ILLUSTRAZIONE IL FATTO QUOTIDIANO

[…] Killer del quartiere Brancaccio, Spatuzza venne arrestato per l'omicidio di don Puglisi e per la partecipazione alla strage di via dei Georgofili, ma rimase una figura di secondo piano fino al 2009, quando – al termine di «un percorso di pentimento religioso» certificato addirittura dal vescovo dell'Aquila – venne presentato all'opinione pubblica con una bomba: Spatuzza disse di essere stato lui a preparare l'attentato Borsellino, distruggendo dalle fondamenta tutto il lavoro – quindici anni – degli investigatori e dei giudici di Caltanissetta che avevano presentato un altro colpevole – un ragazzo di borgata di nome Vincenzo Scarantino – come l'organizzatore dell'eccidio.

 

Scarantino aveva chiamato correi un'altra dozzina di persone che erano al 41 bis: erano completamente innocenti. Si trattò della peggior débacle in tutta la storia della lotta alla mafia, cui la magistratura reagì con imbarazzato silenzio.

 

LA MAFIA UCCIDE A LA7 - VIGNETTA BY MACONDOLA MAFIA UCCIDE A LA7 - VIGNETTA BY MACONDO

Ma Spatuzza era un fiume in piena: rivelò di essere stato lui ad aver compiuto gli attentati di Roma, Firenze, Milano; di essere agli ordini dei fratelli Graviano, disse che questi avevano protezioni molto importanti e che erano soci in affari di Dell'Utri e Berlusconi, essendo stati tra i primi finanziatori dell'impero Fininvest. I Graviano, poi, avevano aiutato Forza Italia a vincere le elezioni del 1994. Tutte queste accuse, però, non vennero riconosciute come credibili dalla magistratura.

 

Ma, a confermarle, con sempre maggiori dettagli ci hanno pensato proprio i Graviano, che negano – naturalmente – di essere gli autori delle stragi, ma non negano, anzi rivendicano i loro rapporti con Berlusconi. Secondo Giuseppe Graviano, autore di una recente (e pregevole per chiarezza) memoria difensiva, la sua famiglia ha contribuito con il venti per cento del capitale iniziale Fininvest e Berlusconi gli aveva promesso di rendere questo contributo palese, invece che occulto. Quando? In un incontro a Milano nel gennaio 1994, alla presenza di avvocati, dopo essersi assicurato l'appoggio dei Graviano per la campagna elettorale. E invece? E invece, sostiene Graviano, «mi ha fatto arrestare!».

 

salvatore baiardo massimo giletti non e l'arena 3SALVATORE BAIARDO MASSIMO GILETTI NON E L'ARENA 3

Sono le fantasie di chi sta da troppo tempo in carcere? Naturalmente sì – la Fininvest nega qualsiasi cosa – ma… E qui comincia la storia che rende così appassionante la vicenda televisiva attuale.

 

Partiamo dalla "sera delle beffe". 27 gennaio 1994, in tarda mattinata Salvatore Baiardo da Omegna accompagna Filippo e Giuseppe Graviano a Milano, con la sua Mercedes 190: vanno a fare shopping (Giuseppe è un patito dello shopping). Li lascia in centro e poi torna al paese. La sera apprende che sono stati arrestati, ma lui non lo vengono a cercare. Eppure i Graviano hanno tutta la loro roba lì: vestiti, documenti. O no? O forse avevano un'altra casa a Milano? Non si saprà mai, perché dopo l'arresto, compiuto in circostanze fantozziane, non seguono gli atti che normalmente si accompagnano, perquisizioni, ricerca dei telefonini, indagini sui documenti falsi. Niente.

 

[…]

 

SALVATORE BAIARDO E BERLUSCONI - ILLUSTRAZIONE DEL FATTO QUOTIDIANOSALVATORE BAIARDO E BERLUSCONI - ILLUSTRAZIONE DEL FATTO QUOTIDIANO

Baiardo, comunque, sta tranquillo, anche se a Omegna vedono le foto dei boss arrestati che assomigliano tanto a quei distinti industriali siciliani (si erano presentati così) «in viaggio di affari», e qualcuno si preoccupa un po' perché hanno avuto business con loro; dopo un anno (senza clamore) Baiardo viene arrestato dalla Dia di Firenze. Accuse pesantissime: hanno rintracciato il suo telefono e lo hanno collegato a una villa di Forte dei Marmi in cui, dicono, è stato preparato l'attentato di via dei Georgofili; lo accusano di aver riciclato miliardi e miliardi dei Graviano al Nord, fanno i nomi di Dell'Utri e Flavio Carboni (il riciclatore del caso Calvi).

 

giuseppe filippo gravianoGIUSEPPE FILIPPO GRAVIANO

Baiardo parla? Lui dice di no, ma c'è una cosa strana: alla fine, per lui, in un processo stralcio presso la Corte d'Appello di Palermo, la condanna è solo per favoreggiamento. Caselli, all'epoca procuratore capo di Palermo avrebbe voluto l'associazione con 416 bis, ma si è imposto Vigna, allora procuratore capo a Firenze. No, solo favoreggiamento. Così invece di andare al 41 bis, Baiardo torna a casa, anche se lo metteranno di nuovo in carcere per alcuni mesi nel 1998. Non sarà per caso che Baiardo ha vuotato il sacco? Lui nega.

 

Anzi, proprio in virtù di essere solo un favoreggiatore, nel 2011 fornisce un alibi (falso) per Giuseppe Graviano, che a questo punto è accusato da due pentiti di aver partecipato materialmente all'eccidio di via D'Amelio. «No, era con me a Omegna quel 19 luglio 1992». Non lo prendono neppure in considerazione. Non lo denunciano nemmeno, però.

 

[…]

 

toto' riina 2TOTO' RIINA 2

Il fatto è che tutta questa storia dei Graviano, all'epoca non sembra interessare proprio nessuno. La magistratura ha imboccato un'altra strada e assiste felice ai suoi successi: Riina è stato catturato e Di Maggio ha rivelato il "bacio" con Andreotti; il ragazzo Scarantino è stato il factotum del delitto Borsellino. Sì, ci sono state delle bombe in continente, ma sono dovute a un ricatto della belva Riina contro lo Stato: la famosa "trattativa", rivelata da uno dei tanti falsi pentiti; parte un'inchiesta che impegnerà i migliori eroi dell'antimafia, coinvolgendo ministri, governo e addirittura il presidente Napolitano, in cui tutti hanno un ruolo e solo i Graviano sono dimenticati.

toto' riinaTOTO' RIINA

 

Solo dopo trent'anni si è stabilito, in un' aula giudiziaria, che il "caso Scarantino" è stato «il più grande depistaggio della storia italiana», ma si è evitato di dire che a questa impostura ha partecipato, volenterosamente, tutta la magistratura italiana, spalleggiata dal miglior giornalismo. È passato praticamente inosservato che l'ormai famoso Spatuzza, dodici anni prima di pentirsi di fronte al vescovo, aveva già spifferato tutto, alla Dia e alla procura nazionale antimafia. Tutto, ma proprio tutto: addirittura nel 1998, nel carcere speciale di Tolmezzo, dove aveva chiesto e ottenuto di essere messo vicino a Filippo Graviano, davanti alle orecchie attente dei procuratori nazionali Vigna e Grasso.

 

Racconta Spatuzza: sono stato io, per ordine dei Graviano, il loro rapporto con Berlusconi è la chiave di tutto. E poi, un sacco di particolari: Omegna, il riciclaggio, Baiardo, le vacanze del 1993, uno strano viaggio estivo in Sardegna. Naturalmente, ha poi aggiunto che quella di Scarantino era un'impostura ordita dalla polizia. Certo, stupisce un po' che i vertici della magistratura non abbiano fatto tesoro di queste informazioni, per dodici anni; e che non si siano adoperati nemmeno per togliere dalla galera una dozzina di ingiustamente accusati. Dispiace, ma le cose andarono così. Nello stesso anno, abbiamo uno Spatuzza che spiffera tutto e un Baiardo graziato come semplice favoreggiatore. Forse il procuratore Vigna aveva anche lui un piano.

 

salvatore baiardo a non e larena 2SALVATORE BAIARDO A NON E LARENA 2

E per quanto riguarda i fratelli Graviano, furono trattati con tutto il rispetto: un 41 bis che sembra un grande albergo, dove i due fratelli si sposano, figliano, ricevono i loro avvocati, trasferiscono i loro capitali, depistano, inquinano, e ogni tanto ricordano che sono loro a essere in dcredito, con la Fininvest in particolare. Per il resto, sembrano abbiano fatto pace con tutti; Filippo si è dissociato ufficialmente, Giuseppe da tempo collabora con i pm di Firenze, non sono irritati con Spatuzza che ha rivelato i loro affari, quanto con Berlusconi che lo ha fatto arrestare e poi non ha rispettato i patti.

salvatore baiardo a non e l arena 1SALVATORE BAIARDO A NON E L ARENA 1

 

Da anni hanno rivelato i misteri della cattura di Riina e il ruolo del generale Delfino, ma stranamente non hanno trovato orecchie disposte a sentirli; la loro versione della faccenda, infatti, mina alle basi tutta la retorica della lotta alla mafia. Dice infatti Giuseppe Graviano: Riina ve lo abbiamo consegnato noi, sappiatelo. Anzi, ringraziateci due volte, perché avremmo potuto farlo fuggire. Il fido Baiardo, recentemente da Giletti, ha confermato. Non solo, ma poi ha fatto sapere che la stessa cosa è successa con Messina Denaro: sono stati i Graviano a consigliargli di farsi prendere. Già: e se fosse andata proprio così? Sta a vedere che lo sapevano tutti.

MASSIMO GILETTI FUORI DALLA PROCURA DI FIRENZEMASSIMO GILETTI FUORI DALLA PROCURA DI FIRENZE

 

Grande potenza della televisione: ora tutti si appassionano alla vicenda. Grande errore di Giletti: è andato a toccare dei fili scoperti, da cui l'Italia ormai pacificata da trent'anni, ha cercato di stare lontana. Per fortuna di tutti – della storia d'Italia, soprattutto – Giletti è stato fermato in tempo. Dispiace per il licenziamento della sua squadra, ma si troverà senz'altro una soluzione.

MASSIMO GILETTI FUORI DALLA PROCURA DI FIRENZEMASSIMO GILETTI FUORI DALLA PROCURA DI FIRENZE

lunedì 18 luglio 2022

                                                                        MAFIE   

“Ecco perché sono state chiuse le Alcatraz italiane”: nel libro di Ardita la storia dei boss mafiosi detenuti a Pianosa e all’Asinara

“Ecco perché sono state chiuse le Alcatraz italiane”: nel libro di Ardita la storia dei boss mafiosi detenuti a Pianosa e all’Asinara
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Edito da Solferino, il saggio s'intitola Al di sopra della legge e ha un sottototitolo eloquente: "Così la mafia comanda dal carcere". Sul tema, Ardita è uno dei magistrati più competenti: consigliere del Csm e in passato procuratore aggiunto a Catania e Messina, è stato per dieci anni - dal 2002 al 2011 - direttore dell’Ufficio centrale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria

Perché vennero chiuse le Alcatraz italiane? Per restituire le due isole di Pianosa e dell’Asinara al “ruolo ecologico e turistico di parchi e oasi naturali”, spiegò l’allora governo di centrosinistra. Secondo Sebastiano Ardita, però, potrebbe non essere quello l’unico motivo. E d’altra parte la vicenda delle due supercarceri ha spesso infiammato dibattiti roventi. Ora il magistrato mette in correlazione la norma che di fatto fissò la chisura dei due penitenziari nell’ultimo giorno del 1997, con quella entrata in vigore nel gennaio del 1998: stabiliva che i detenuti mafiosi dovevano partecipare ai processi in videoconferenza, senza più beneficiare di trasferimenti nei penitenziari della Sicilia, dove si celebravano la maggior parte dei procedimenti in cui erano imputati. “È chiaro che non può essersi trattato di una coincidenza“, annota Ardita nel suo ultimo libro. Edito da Solferino, il saggio s’intitola Al di sopra della legge e ha un sottototitolo eloquente: “Così la mafia comanda dal carcere“. Sul tema, Ardita è uno dei magistrati più competenti: consigliere del Csm e in passato procuratore aggiunto a Catania e Messina, è stato per dieci anni – dal 2002 al 2011 – direttore dell’Ufficio centrale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Le supercarceri e il boomerang di Cosa nostra – Un incarico delicato quello ricoperto da Ardita: in passato ben due direttori dell’Ufficio centrale detenuti sono stati assassinati dalle Brigate rosse. Nel suo libro il magistrato racconta la sua esperienza in quello che è uno degli uffici ai vertici del Dap, ma si sofferma anche su quello che è avvenuto dopo: le rivolte in carcere durante l’esplosione del Covid, le scarcerazioni di detenuti mafiosi nelle settimane del lockdown, i pestaggi della polizia penitenziaria. Ma per spiegare i limiti della gestione carceraria, Ardita è spesso costretto ad andare indietro nel tempo fino al 1992, l’anno delle stragi. È dopo l’attentato di Capaci che viene introdotto per la prima volta il 41bis, il carcere duro per detenuti mafiosi, inserito in un decreto legge che rappresentava la risposta dello Stato all’omicidio di Giovanni Falcone. Come tutti i decreti, però, anche quello aveva una data di scadenza: se il Parlamento non lo avesse convertito in legge entro il 7 agosto del ’92, il carcere duro per i mafiosi sarebbe evaporato. A leggere i giornali dell’epoca, dopo i primi giorni di commozione, al Senato e alla Camera stava prevalendo una linea garantista, spinta anche dall’inchiesta su Tangentopoli che stava colpendo duramente la classe politica della Prima Repubblica. Già dopo alcune settimane dalla morte di Falcone l’emergenza mafia era svanita dalle agende parlamentari: secondo numerosi commentatori è altamente probabile che il decreto sul 41 bis non sarebbe stato convertito dalle Camere. Solo che poi, appena due settimane prima della scadenza, Cosa nostra decise di uccidere anche Paolo Borsellino. E il Parlamento rispose convertendo in legge la norma sul carcere duro per i mafiosi. Il governo decide di reagire portando i mafiosi sulle isole di Pianosa e dell’Asinara, dove veniva applicato il 41bis. La strage di via d’Amelio, dunque, è una sorta di boomerang per Cosa nostra: anche per questo motivo l’eliminazione di Borsellino resta ancora oggi una delle più misteriose decisioni prese da Totò Riina.

Le minacce dei familiari dei detenuti – Nei fatti è da quel momento che tra gli obiettivi di Cosa nostra viene inserita la guerra contro il carcere duro. L’abolizione del “decreto legge 41bis”, la “chiusura super carceri” e la “carcerazione vicino le case dei familiari“, sono tre dei dodici punti inseriti da Riina nel famoso “papello” di richieste avanzate nei confronti delle Istituzioni per far cessare le stragi. Nel febbraio del 1993, dopo l’arresto di Riina, una lettera firmata da “familiari dei detenuti di Pianosa e Asinara” viene inviata al presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, e ad altri destinatari istituzionali. In quella missiva si usava un tono minaccioso, chiedendo l’intervento del capo dello Stato per mettere fine a violenze in carcere contro detenuti. La lettera conteneva accuse all’allora direttore del Dap, Nicolò Amato, definito”dittatore spietato“: quattro mesi dopo sarà sostituito da Adalberto Capriotti. “Ma al di là del carcere duro, quello che i mafiosi non tolleravano era la distanza dal loro mondo. Una condizione per loro assolutamente insopportabile era il dover stare sulle isole. Le isole erano il loro problema principale. Non c’era giorno che un vecchio funzionario o qualcuno del Gom – il Gruppo operativo mobile, il reparto speciale di polizia addetto alla vigilanza dei 41 bis – non mi suggerisse di proporre di riportare i mafiosi sulle isole. Ma questo argomento era un vero tabù. Non se ne poteva neppure parlare, perché la politica aveva alzato un muro”, scrive Ardita nel suo libro, ricordando i suoi anni al Dap.

L’indagine di Ardita – L’attuale consigliere del Csm racconta allora di aver svolto una sorta d’indagine interna sulla chiusura delle due isole carcere. “Ho cercato di capire cosa fosse avvenuto in quegli anni – tra il 1992 e il 1997 –, dopo che il ministro Martelli aveva fatto riaprire Pianosa e l’Asinara. E perché a un certo momento, in modo precipitoso, dall’oggi al domani, il governo alla fine del 1997 – quando il ministro non era più Martelli – aveva deciso di chiuderle e di trasferire tutti i detenuti sulla terraferma. Questa decisione precipitosa mi incuriosì, e così provai a cercare una spiegazione altrettanto interessante”. E’ a quel punto che Ardita racconta di aver portato avanti una vera e propria indagine documentale. “Per prima cosa andai a indagare quale fosse stata la effettiva permanenza dei più importanti capimafia a Pianosa e all’Asinara tra il 1992 e il 1997. Scoprii subito che, a causa della necessità di celebrare i processi in corso, avendo essi il diritto a presenziare ai dibattimenti, in realtà sulle isole i boss rimasero ben poco”. Quello che scopre Ardita è un fatto poco noto: anche se i capi di Cosa nostra, sulla carta, rappresentavano detenuti nelle Alcatraz italiane, nei fatti ci trascorrevano pochissimi giorni. “Stavano molto tempo nelle carceri delle loro città, dove si celebravano i processi. Trascorrevano lunghe giornate nelle aule di udienza, dove avevano modo di parlare – fuori dalle occasioni previste dal regime – con altri detenuti, avvocati e familiari. E in qualche caso mandavano messaggi agli affiliati anche attraverso interviste rilasciate dalle gabbie”. Il magistrato fornisce dati precisi: il capo dei capi Totò Riina in teoria ha trascorso quattro anni all’Asinara: tra una trasferta per motivi processuali e un’altra, però, ci passò alla fine solo 185 giorni. Suo cognato Leoluca Bagarella si fermò a 157 giorni, cento in meno di quelli trascorsi sulle isola dal capo di Cosa nostra a Catania, Nitto Santapaola.

Il dibattito politico – Ardita prosegue il suo racconto: “Questo privilegio di poter eludere la permanenza sull’isola con la scusa dei processi sarebbe dovuto cessare nel gennaio 1998, quando una legge stabilì che i mafiosi dovevano partecipare ai processi in videoconferenza. Con quella legge la permanenza dei boss nelle isole sarebbe diventata stabile e duratura. Ma, con un colpo di scena, un decreto-legge fissò al 31 dicembre 1997 il termine ultimo per l’utilizzo delle isole a fini penitenziari, disponendo la chiusura definitiva degli stabilimenti penali. Con una singolare coincidenza rispetto alla conclusione dell’iter parlamentare della legge sui processi a distanza, le carceri sulle isole da un giorno all’altro furono evacuate. E così si evitò che i boss vi rimanessero stabilmente“. E’ il 1997 quando il governo di centrosinistra, guidato da Romano Prodi con Giovanni Maria Flick alla Giustizia, chiude le “Alcatraz italiane”. L’ex guardasigilli ha sostenuto più volte come quella scelta fosse dovuta alla legge sulle aree protette, in vigore già nel 1992, che prevedeva l’istituzione dei Parchi naturali sulle due isole e la chiusura dei penitenziari. Ancora nel settembre scorso Flick ha inviato una lettera di replica al Fatto Quotidiano per dire che la vicenda della chiusura delle supercarceri era stata “in realtà già definita nelle due precedenti legislature”, rispetto a quella in cui lui era ministro della Giustizia, “per unanime volontà del Parlamento e delle Regioni interessate” e dal governo Prodi fu “soltanto adempiuta e anzi differita nel tempo“.

“I mafiosi sarebbero stati murati vivi nelle isole” – Ardita, però, fa notare come la decisione di confermare la chiusura dei penitenziari s’incrocia con un’altra legge: quella che obbliga i mafiosi a presentarsi in videoconferenza alle udienze dei processi. “Per capire meglio tutto bisogna sapere che anche la previsione del regime 41 bis era a termine. Fino a un certo punto i due strumenti, 41 bis e utilizzo delle isole, vennero prorogati insieme di due anni in due anni. Poi la permanenza dei mafiosi sulle isole venne prorogata per periodi più brevi e in ultimo finì per non essere più prorogata: giusto quando stava per diventare stabile ed effettiva, grazie all’introduzione dei processi in videoconferenza. È chiaro che non può essersi trattato di una coincidenza”. scrive il magistrato. Che poi prosegue: “Tutti sapevano che quella legge avrebbe murato vivi i boss nei penitenziari che si trovavano lontani dalla terraferma, come si può apprendere dai lavori parlamentari del 1996 per la conversione in legge dell’ultimo decreto di proroga dell’utilizzo delle isole. Nel dibattito si diceva che: Totò Riina, in regime di 41 bis, è detenuto nel carcere dell’Asinara: su trecentosessantacinque giorni di un anno è rimasto ospite solo cinquantasette giorni“. Nel suo libro, il magistrato, cita direttamente la vicenda della cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra:secondo la procura di Palermo avrebbe avuto tra i suoi oggetti anche l’attenuazione del carcere duro per i mafiosi. Il processo d’Appello sulla Trattativa, però, si è concluso nel settembre scorso con le assoluzioni di quasi tutti gli imputati. “Visto che oggi pare vi sia la certezza giuridica del fatto che non è reato negoziare con la mafia su aspetti che incidono negativamente su di essa, sarebbe forse più facile cercare di capire chi assunse l’iniziativa di quella scelta e perché. Al di là dei giudizi, dei processi, delle responsabilità penali e istituzionali, esiste un bisogno di verità”.