mercoledì 26 febbraio 2020

                                                       FALCONE E BORSELLINO



“SCARANTINO? SI DOVEVA CAPIRE SUBITO CHE ERA INATTENDIBILE” - LA TESTIMONIANZA DI ILDA BOCCASSINI AL PROCESSO PER IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO: “IL PROCURATORE TINEBRA SI CHIUDEVA DA SOLO NELLA STANZA CON L'EX PENTITO'. L’ATTEGGIAMENTO VERSO DI ME CAMBIÒ DOPO LE ELEZIONI DEL 1994” – E POI IL SOPRALLUOGO A CAPACI “FATTO MALE”, LA COLLABORAZIONE TRA I SERVIZI SEGRETI E LA PROCURA DI CALTANISSETTA E IL RUOLO DI GENCHI…
-

Condividi questo articolo

ILDA BOCCASSINIILDA BOCCASSINI
Era attesa la testimonianza di Ilda Boccassini e oggi in videconferenza da Milano, l’ex procuratore aggiunto di Milano in pensione da due mesi, ha risposto alle domande davanti ai giudici di Caltanissetta nel processo contro tre poliziotti per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, testimoniando soprattutto sulla gestione del falso pentito Scarantino.

Una testimonianza in cui emerge che, a un certo punto, il magistrato venne tenuto fuori dalla “dinamica investigativa” ovvero dopo “le elezioni del 1994”, con l’affermazione di Forza Italia e Silvio Berlusconi, quando “l’atteggiamento” nei suoi confronti “cambiò”. Prima di queste dichiarazioni Boccassini ha parlato delle indagini sulla strage di Capaci e della figura del consulente Gioacchino Genchi.
vincenzo scarantinoVINCENZO SCARANTINO

“Il sopralluogo a Capaci era stato fatto male” – “Quando arrivai la prima decisione fu quella di rifare il sopralluogo a Capaci, perché leggendo le carte, e non solo la ricostruzione, mi resi conto che era stato fatto male. Mancava una regia” . Il magistrato, andata da poco in pensione, è inquadrata di spalle. Risponendo alle domande del Procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, sta ripercorrendo il periodo in cui era stata applicata alla Procura nissena dopo le stragi. “Arrivai nell’ottobre del ’92 e rimasi fino al 1994”. Così ricorda che fu rifatto il sopralluogo a Capaci “coinvolgemmo tutte le forze dell’ordine, dai Carabinieri alla Guardia di Finanza, alla Polizia fino all’Fbi e tutte le forze possibili. Il primo periodo fu dedicato esclusivamente a questo – dice – ci fu una divisione di compiti delle forze di polizia che dovevano partecipare all’indagine sulle stragi ma con competenza specifica”.

Francesco Greco - Francesco Saverio Borrelli - Gherardo Colombo e Ilda BoccassiniFRANCESCO GRECO - FRANCESCO SAVERIO BORRELLI - GHERARDO COLOMBO E ILDA BOCCASSINI
“Collaborazione con servizi segreti? Non mi sembra una cosa terribile” – Rispondendo a una domanda la teste ha spiegato che seppe “della notizia di una collaborazione tra i servizi segreti e la Procura di Caltanissetta solo da giornali. Io vidi Contrada per la prima volta durante un interrogatorio a Forte Braschi. Da da quando sono stata a Caltanissetta non ho saputo di un rapporto con i servizi – dice – che poi, non in mia presenza, colleghi si incontrassero con esponenti dei servizi segreti non lo so. Ma devo aggiungere una cosa: davanti alle due stragi che hanno sconvolto il mondo e hanno destabilizzato le istituzioni che il procuratore abbia avuto contatti con i servizi non mi sembra una cosa terribile ma fa parte delle cose di un normale nucleo di rapporti che sono nati e cresciuti e mantenuti nel limite della legge. Ma questo non lo so”.

“Scarantino? Si doveva capire subito che era inattendibile” – Boccassini ha poi affrontato il tema Scarantino, il falso pentito che aveva iniziato ad accusare alcune persone per la strage in cui erano morti Paolo Borsellino e i componenti della sua scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli. Quelle accuse si erano poi rivelate false, ma nel frattempo sette persone hanno scontato fino a 18 anni di carcere da innocenti. E già allora Ilda Boccassini aveva intuito che le parole di Scarantino erano false.

ilda boccassiniILDA BOCCASSINI
Secondo i giudici del processo Borsellino quater le indagini che seguirono a quelle dichiarazioni furono “il più grande depistaggio della storia d’Italia“. “Quando io sono arrivata alla Procura di Caltanissetta, anche parlando con i colleghi che già c’erano e con il capo dell’ufficio e lo stesso dottor Arnaldo La Barbera, i dubbi su Scarantino già c’erano. 

I dubbi su una persona che non era di spessore, anzi che non era per niente di spessore. Il suo quid, se così possiamo chiamarlo, era una parentela importante in Cosa nostra, però sin dall’inizio, io avevo delle perplessità. Forse all’inizio avevo meno perplessità – dice Boccassini – perché non ero ancora entrata nelle carte, nella mentalità. Io ero lì in attesa, ma anche degli altri nessuno gridava ‘ma che bella questa cosa’. Tutti erano con i piedi di piombo su questa cosa. era l’inizio ancora e bisognava andare avanti per vedere se l’indagine portava a qualcosa di più sostanzioso. La prova regina della non credibilità di Vincenzo Scarantino proviene dalla sua collaborazione, da quel momento era una persona che non solo stava facendo un danno ma il danno poteva essere devastante”.
vincenzo scarantinoVINCENZO SCARANTINO

“Fui mandata in ferie e quando tornai lessi che diceva sciocchezze” – “Si doveva capire subito che era inattendibile”. Alla domanda su chi fossero i magistrati che “davano credito” all’ex picciotto della Guadagna di Palermo Boccassini replica: “I pm Annamaria Palma e Carmelo Petralia”, cioè i due magistrati che oggi sono indagati dalla Procura di Messina per calunnia aggravata in concorso con l’accusa di avere indotto Scarantino a fare delle dichiarazioni.

Poi il magistrato, che fu applicata a Caltanissetta dal 1992 al 1994, ricorda che nell’agosto 1994, poco prima che lasciasse Caltanissetta, aveva chiesto al Procuratore Giovanni Tinebra di potere partecipare agli interrogatori di Scarantino e rinviare le ferie, ma il Procuratore la mandò in vacanza. “Dopo il mio ritorno venni tenuta fiori dai giochi. Non ero più la protagonista della dinamica investigativa. Quando tornai dalle ferie di agosto del 1994 ed ebbi modo di vedere il contenuto degli interrogatori di Vincenzo Scarantino, lessi che diceva sciocchezze e che bisogna fare in modo di fermarlo per evitare che dicesse altre sciocchezze“. E poi: Io ero disponibile persino a un trasferimento d’ufficio da Milano alla Procura di Caltanissetta, ero disposta a restare anche per la tutela delle indagini. Ma l’allora Procuratore Tinebra disse ‘assolutamente no’, cioè non mi volevano…Sì, sono stata così imbecille da essere disposta a trasferirmi a Caltanissetta”.
BoccassiniBOCCASSINI
“Relazione che scrissi con Roberto Sajeva era sparita” – “La relazione che io e il collega Roberto Saieva facemmo sulla non credibilità di Vincenzo Scarantino era sparita da Caltanissetta ma io ne avevo diverse copie – prosegue – Fino alla fine dissi ai colleghi che bisognava cambiare metodo che Scarantino andava preso con le molle. Vedendo che c’era questa voglia che io andassi via da Caltanissetta scrissi la seconda relazione. Soltanto con il pentimento di Spatuzza nel 2008, ricevetti una telefonata dall’allora procuratore della Repubblica di Caltanissetta che mi chiese se era vero che io avevo scritto delle relazioni con Roberto SaJeva. Erano sparite.

Io e Sajeva, dopo averne parlato con Giancarlo Caselli, mandammo le relazioni direttamente a Palermo”. “Sono qui per la quarta volta – sottolinea l’ex pm – a ripetere sempre le stesse cose sentendomi quasi in colpa per aver scritto quelle relazioni che avrebbero potuto dare una scossa diversa a quei processi”. “Se non avessi fatto queste relazioni – continua – oggi avrei avuto le colpe di questo mondo. Ma con queste relazioni è più complesso…”.

STRAGE DI VIA D'AMELIOSTRAGE DI VIA D'AMELIO
“Tinebra si chiudeva in una stanza prima degli interrogatori” – Prima degli interrogatori il Procuratore Tinebra si chiudeva in una stanza, solo, con Vincenzo Scarantino. Non so il tempo preciso ma per un bel pò. Poi Tinebra apriva le porte e si entrava a fare l’interrogatorio”. Lo ha rivelato, deponendo al processo sul depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio, Ilda Boccassini, l’ex Procuratore aggiunto di Milano. Il periodo era quello dell’inizio estate 1994, quando Scarantino decise di collaborare con la giustizia. Anche se poi le sue dichiarazioni si rivelarono false.

“Non mi volevano, signor pubblico ministero. ero servita a far fare carriera a tutti, ma io non ero andata per questo scopo. Non vedevano l’ora che io abbandonassi Caltanissetta – dice ancora il magistrato andato in pensione a dicembre – Se avessero seguito le mie indicazioni, sia i pm che gli avvocati avrebbero avuto il tempo, la professionalità per capire che Scarantino non era credibile“.

Il magistrato ha parlato del suo arrivo in Sicilia: “Ricordo con affetto, quando arrivai alla Procura di Caltanissetta, una frase dell’allora Procuratore capo Giovanni Tinebra, che io non conoscevo, e mi disse: ‘Cocca mia, qua ci sono le carte. arrangiati, vedi cosa devi fare’. Questo fu il primo impatto. Nel primo periodo studiavo solo le carte. Una massa di carte. Con il collega Fausto Cardella – dice – anche lui applicato, che si occupava con altri colleghi della strage di via D’amelio ci fu un confronto, anche perché nacque quasi subito un rapporto di amicizia. 
PALERMO 19 LUGLIO 1992 - STRAGE IN VIA D'AMELIOPALERMO 19 LUGLIO 1992 - STRAGE IN VIA D'AMELIO

Gli altri collegi che si occupavano delle stragi che erano volontari, si occuparono in quel momento della indagine ‘Leopardo’ a seguito delle dichiarazioni di Leonardo Messina. Non conoscevo Tinebra e mi stupii molto quando mi arrivò la richiesta per essere applicata a Caltanissetta”.

Boccassini: “Genchi pericoloso per le istituzioni”, la replica: “Prima vera responsabile del dei depistaggi” – Il magistrato parla anche di Gioacchino Genchi, ex poliziotto ed ex consulente informatico della Procura di Caltanissetta. “Questa persona non mi piaceva, diffidavo di lui e mi sembrava che non fosse una presenza necessaria e importante per le indagini. Se lui ha litigato con La Barbera non lo so e non mi interessa. Feci capire a Tinebra che se ne poteva fare a meno. Era una persona pericolosa per le istituzioni, aveva conservato un archivio con i tabulati raccolti. E poi vedeva complotti e depistaggi ovunque. Ne parlai anche a La Barbera – ha aggiunto – che era d’accordo sul fatto che non si poteva pendere dalle labbra di uno come Genchi. Il suo apporto alle indagini fu nullo. Era un tecnico, non un investigatore, quindi non poteva apportare nulla a un’indagine così seria”.
STRAGE DI VIA D'AMELIO - I SOSPETTI CHE HANNO POTUTO TRAFUGARE L'AGENDA ROSSA DI BORSELLINOSTRAGE DI VIA D'AMELIO - I SOSPETTI CHE HANNO POTUTO TRAFUGARE L'AGENDA ROSSA DI BORSELLINO

All’Adnkronos Genchi replica: “È stata lei la prima responsabile del depistaggio. Ilda Boccassini a distanza di quasi un trentennio da quegli eventi non si rende ancora conto di essere stata – probabilmente senza volerlo, perché indotta da altri sentimenti – la prima vera responsabile dei depistaggi delle indagini sulle stragi che grazie a lei Arnaldo La Barbera ed altri, sopra e sotto di lui, hanno potuto compiere. La sua repentina fuga da Caltanissetta dopo avere contribuito ad accreditare il falso pentito Scarantino, il suo infausto passaggio da Palermo e il ritorno a Milano, da dove era andata via per le note vicende a tutti note, ne sono una conferma.

Ilda Boccassini, all’epoca in cui era pubblico ministero a Caltanissetta, dopo avermi richiesto ed autorizzato ad analizzare i computer e i dispositivi informatici di Giovanni Falcone, oltre che ad acquisire i tabulati delle sue utenze cellulari, non mi ha consentito di verificare dalle sue carte di credito l’effettiva trasferta in America alla fine di aprile del 1992, che Falcone aveva scrupolosamente annotato nel suo data bank Casio, che delle manine di Stato su cui la Boccassini non volle mai indagare avevano provveduto a cancellare”.

Botta e risposta tra pm e la testimone – Botta e risposta tra pm e Ilda Boccassini al processo sul depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio. Ad innescare la polemica sono le parole di Ilda Boccassini che, rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Repici, che le chiede perché “in questi anni non aveva mai detto degli incontri tra il Procuratore Tinebra e Vincenzo Scarantino prima degli interrogatori”, ha controreplicato: “Sono 30 anni che mi chiedo perché su questi fatti Tinebra non è mai stato sentito da Caltanissetta”. A questo punto il procuratore aggiunto Gabriele Paci ha detto: “Evitiamo di trasformare questo processo in una sorta di mercato. Tinebra fu sentito nel Borsellino quater e quindi evitiamo di fare commenti”. A quel punto è intervenuto il presidente del Tribunale Francesco D’Arrigo che ha chiesto a “tutti di abbassare i toni”.
VINCENZO SCARANTINO OSPITE DI MICHELE SANTOROVINCENZO SCARANTINO OSPITE DI MICHELE SANTORO

Momenti di forte tensione si sono registrati anche quando Boccassini ha detto: “Non fa onore a chi indossa la toga avere raccolto certe dichiarazioni, come quando Scarantino disse di essere stato minacciato da me e da La Barbera. Questa era una calunnia bella e buona ma non sono stata tutelata”. Immediata la replica del pm che attacca: “Presidente la invito a far presente alla teste che si deve limitare a rispondere alle domande. Non siamo qui per prendere lezioni da nessuno. Visto che si parla di decoro delle toghe, cosa si doveva fare in quel caso, non verbalizzare quello che diceva Scarantino?”.

L’ex aggiunto di Milano ha anche raccontato che tra il 1992 e il 1994 “diversi collaboratori di giustizia parlarono di moltissimi magistrati siciliani, tantissimi, oppure ne volevano parlare, ma non era mai il momento buono”. E ha fatto il nome di Pietro Giammanco, ex procuratore capo di Palermo. “E’ stato poi iscritto nel registro degli indagati dopo le dichiarazioni rese da alcuni collaboratori – dice – era uno dei tanti magistrati indagati a Caltanissetta”.

martedì 11 febbraio 2020

                                                                 MAFIE


GIUSTIZIA & IMPUNITÀ

Corruzione, il pentito: “Cartier, qualche Rolex e soldi cash a giudici e avvocati. Così la ‘ndrangheta aggiustava i processi in Calabria”

Corruzione, il pentito: “Cartier, qualche Rolex e soldi cash a giudici e avvocati. Così la ‘ndrangheta aggiustava i processi in Calabria”

Secondo il collaboratore di giustizia Andrea Mantella esisteva una sorta di "sistema" per avere sentenze favorevoli. Un meccanismo raccontato ai pm di Salerno, che stanno indagando sul giudice Marco Petrini, arrestato nelle scorse settimane con l'accusa di corruzione: "Nel mio episodio, tutti i miei episodi sono stati denaro contante comunque attraverso fiumi di denaro cercavano di aggiustare dei processi". Sul magistrato arrestato ha detto: “È un massone con la gonnella, gradiva avere qualche regalo in cambio di ammazzare sentenze"
“Ci siamo stretti la mano, mi ha detto: entro 15 giorni io ti farò scarcerare”. E così è stato: “Al quindicesimo giorno, alle 13 e qualcosa, la telefonata dell’avvocato Staiano come se fosse che il discorso era già fatto. Praticamente io uscii dal carcere… gli ho dovuto dare i soldi subito subito. L’avvocato Staiano mi disse che con quella cifra stavo tranquillo, con quei soldi stavo tranquillo”. Il 4 aprile 2019, il pentito Andrea Mantella si trova davanti ai pm di Salerno che stavano indagando sul giudice Marco Petriniarrestato nelle scorse settimane con l’accusa di corruzione. L’ex killer e capo del clan Lo Bianco di Vibo Valentia si trova nella stanza dei sostituti della Dda Vincenzo Senatore e Silvio Marco Guarriello. Ai due pm spiega come la ‘ndrangheta ha aggiustato processi in Calabria: “Nel mio episodio, tutti i miei episodi sono stati denaro contante”. Il sistema, però, prevedeva anche “altre utilità”. A spiegare quali è lo stesso Mantella, boss “con la seconda elementare”, ma dotato di evidenti capacità di sintesi: “Qualche Cartier, qualche Rolex, qualcosa e alla fine…un po’ di pazienza e ce la fai ad uscire dal carcere”. Tra il pentito e i magistrati c’è una scrivania con sopra sette fascicoli che si riferiscono ad altrettante indagini che la Procura di Salerno sta conducendo, per competenza, nei confronti di magistrati del distretto di Catanzaro. Alcuni di quei fascicoli, cinque per l’esattezza, sono inchieste su giudici o pubblici ministeri calabresi già iscritti nel registro degli indagati. Le altre due inchieste sono, invece, a modello 45, quello su atti che non costituiscono una notizia di reato. Se gli accertamenti delegati alla polizia giudiziaria dovessero fornire elementi a riscontro, i pm Senatore e Guarriello potrebbero decidere di trasformare i due fascicoli contro ignoti e iscriverli a modello 21 dando un nome agli indagati.

IL SISTEMA NICOLINO GRANDE ARACRI- Il pentito Mantella parla di vicende che ha vissuto personalmente ma anche di questioni che ha appreso in carcere, dove ha stretto contatti pure con le cosche crotonesi: dai Mannolo ai Vrenna, ma soprattutto con il boss di Cutro Nicolino Grande Aracri. Nelle 288 pagine di verbale, depositate al tribunale del Riesame, ci sono molti omissis. Ma ci sono anche nomi di avvocati e magistrati sui quali adesso la Procura di Salerno vuole vederci chiaro. Su tutti c’è l’avvocato Salvatore Staiano, appena rinviato a giudizio a Catanzaro per i suoi presunti rapporti con i clienti. Stando alle accuse, tra questi ultimi e il professionista non ci sarebbe stato solo un rapporto professionale ma soldi in contanti destinati a magistrati corrotti. “Staiano era nelle mani di Nicolino Grande Aracri, – dice Mantella – però era il pupillo di Vincenzo Gallace e praticamente all’interno dello studio dell’avvocato Staiano lavorava come avvocato un fratello di Nicolino Grande Aracri… comunque attraverso fiumi di denaro cercavano di aggiustare dei processi, ci provavano in tutti i sensi”. “La pratica – sono le parole del pentito – era questa: praticamente quando c’è un’associazione mafiosa, quando c’è praticamente una cosa, pure che tu rimani in carcere si fa il gioco che cerchi di fare di tutto, di farti cadere ad esempio l’accusa di omicidio e ti rimangono i 12 anni dell’associazione mafiosa”. Il meccanismo per la cosca di Cutro era collaudato: “Si impegna un professionista distinto che si mette a disposizione attraverso diciamo grosse somme di denaro e tocca solo quell’avvocato, tocca solo a quel funzionario di mettere a posto quello che si potrebbe mettere a posto, se c’è da mettere a posto qualcosa”. In altre parole, il compito dell’avvocato era quello di “addolcire” il magistrato che doveva giudicare il boss: “Significa di fargli cambiare un opinione negativa per il tuo cliente”. Non c’erano margini di errore o dubbi che la sentenza potesse andare diversamente dai desiderata del boss: i Grande Aracri “erano tranquillissimi che la cosa sarebbe andata a buon fine… è come se fosse che già avevano scritto l’assoluzione in mano”.
MANTELLA ALL’AVVOCATO: “LA PORSCHE O SOLDI LIQUIDI?” – Il pentito non riporta solo discorsi ascoltati in carcere. No: anche Mantella ha beneficiato personalmente di quel tipo di “aiuti”. Ai pm di Salerno, parla del suo tentativo di uscire dalla clinica psichiatrica Villa Verde, dove stava scontando la sua pena: “Dovevo fare dei passaggi di droga… un affare grosso. Ero pronto a tutto… Gli ho detto ‘avvocato io gli do subito una Porsche’. Dice: ‘Quanto vale sta Porsche? Io gli dissi 65-70mila euro’. ‘Se io li vorrei (volessi, ndr) liquidi questi soldi, tu ce li hai?’. ‘Come no, ce l’ho e ci siamo stretti la mano’….Ho dato 65-70mila euro liquidi all’avvocato Staiano”. Ed è a questo punto del verbale che il pentito Mantella, rispondendo alle domande dei pm, fa i nomi di alcuni magistrati. Una premessa è d’obbligo: si tratta di giudici che non risultano indagati. Vengono comunque citati nelle carte depositate dalla Procura di Salerno nel fascicolo sul giudice Marco Petrini. Saranno gli accertamenti disposti dai pm campani a stabilire se le accuse del pentito sono false – e quindi Mantella va messo sotto inchiesta per calunnia – o se, invece, hanno un fondamento. “L’avvocato Staiano – afferma il collaboratore di giustizia – vantava l’amicizia con il dottore Battaglia e con la dottoressa Rinaudo, e un pochettino cercava di addolcire la Marchianò…”. Tutti e tre sono magistrati che lavorano o hanno lavorato a Catanzaro e per i quali, oltre alle dichiarazioni del pentito, non c’è alcuna accusa agli atti dell’inchiesta Genesi contro il giudice Petrini. Non ci sono elementi, infatti, per pensare che siano coinvolti in storie di questo tipo. Per capire i contorni della vicenda e consentire a Mantella di essere più esplicito, i pm cercano di insinuare il dubbio che l’avvocato Staiano potesse avere millantato l’amicizia con i giudici per accreditarsi agli occhi del boss di Vibo Valentia. “A me – chiarisce il pentito – la frase corrompere non me l’ha detta mai. Mi ha detto ‘tu mi devi dare questi soldi e stai tranquillo’. Ma mica siamo bambini… io i soldi, come sono rimasto con lui, glieli ho dati dopo il provvedimento di scarcerazione”.

TRENTA MILA EURO AL COMMERCIALISTA PER GLI ARRESTI DOMICILIARI – Mantella non badava a spese quando si trattava di uscire dal carcere: “Nel settembre 2006, ho dovuto pagare, dare 30mila euro a Scrugli Francesco (il suo ex braccio destro, ndr) perché io ero in carcere per l’operazione ‘Asterix’”. Questa storia il collaboratore l’ha già raccontata ai pm di Catanzaro e la ripete ai sostituti della Dda di Salerno: “Scrugli va da Daffinà”. Antonino Daffinà è uno dei candidati alle elezioni regionali del 26 gennaio scorso nella lista di Forza Italia: “Daffinà commercialista di Vibo anche lui legato a rapporti della massoneria deviata con Pantaleone Mancuso ‘Vetrinetta‘ (boss defunto nel 2015), per dire siccome hanno una parentela tra Antonino Daffinà e il dottore Giancarlo Bianchi”. Anche il magistrato Bianchi, quindi, viene tirato in ballo dal pentito Mantella che però non riporta fatti vissuti personalmente ma riferisce una circostanza che gli è stata raccontata da un altro soggetto, Francesco Scrugli: quest’ultimo non potrà mai confermarla perché è stato ucciso nel 2012. “Io non mi aspettavo neanche questa detenzione… – aggiunge il collaboratore – scendo a colloquio quella mattina, a fare colloquio tranquillamente, i miei familiari hanno detto: ‘Stai uscendo… ti hanno dato gli arresti domiciliari’. Cosa che io neanche sapevo. Una volta fuori, Francesco Scrugli che era il mio braccio destro mi dice: ‘Andrea dobbiamo… mi devi dare 30mila euro perché io li ho dati a Tonino Daffinà per farti ottenere questi arresti domiciliari”.
IL GIUDICE MARCO PETRINI? “UN MASSONE CON LA GONNELLA” – La definizione che il pentito fa del giudice Petrini invece è abbastanza netta: “È un massone con la gonnella, sempre questo mi hanno detto”. Il magistrato aveva anche un altro soprannome: “In gergo – dice il pentito – lo chiamano ‘il bolognese”. Per “addolcire” il giudice arrestato e addomesticare i suoi processi, il sistema era lo stesso: “Petrini mangia come un porco. – mette a verbale Mantella – Accetta i cash. Petrini è un che mangia…soldi, orologi, vantaggi, macchine a noleggio, ristoranti, alberghi, campeggi, villaggi turistici”. Anche prostitute? “Adesso vengono chiamate hostess” aggiunge il pentito secondo cui Petrini “ha tendenze nella massoneria deviata” e “gradiva avere qualche regalo in cambio di ammazzare sentenze”.

venerdì 7 febbraio 2020

                                                                MAFIE


Mafia, il boss Graviano: "Mentre ero latitante incontrai Berlusconi a Milano"



Mafia, il boss Graviano: "Mentre ero latitante incontrai Berlusconi a Milano"




gio Calabria. "Io ho condotto la mia latitanza nel milanese tra shopping in via Montenapoleone e teatri, insomma facevo la bella vita"
Invia per email
Stampa
Non solo ha più volte incontrato Silvio Berlusconi, “ma la mia famiglia con lui era in società”. È un fiume in piena il boss Giuseppe Graviano, l’uomo della stagione delle stragi, che per vent’anni si è trincerato dietro il più assoluto silenzio, incassando condanne su condanne. Ascoltato al processo “’Ndrangheta stragista” a Reggio Calabria, “Madre natura” ha aperto la diga e in aula ha parlato in dettaglio dei rapporti che storicamente legano la sua famiglia a Silvio Berlusconi, conosciuto e frequentato dai Graviano ancor prima della sua discesa in campo con Forza Italia.

“Mio nonno materno, Quartanaro Filippo, era una persona abbastanza ricca. Era un grande commerciante di ortofrutta. Venne invitato a investire soldi al nord, perché era in contatto con Silvio Berlusconi”. Una valanga di miliardi da investire nell’immobiliare, con quota di partenza di 20 miliardi raccolta fra diverse famiglie. Un affare in cui anche Giuseppe Graviano entra dopo l’omicidio del padre, che all’avventura milanese – a suo dire – era sempre stato contrario.

“Mio nonno mi disse che era in società con queste persone, mi propose di partecipare pur specificando che mio padre non voleva. Io e mio cugino Salvo abbiamo chiesto un consiglio a Giuseppe e Michele Greco, che mi dissero che qualcuno doveva portare avanti questa situazione e abbiamo deciso di sì. E siamo partiti per Milano. Siamo andati dal signor Berlusconi, mio nonno era seguito da un avvocato di Palermo che era il signor Canzonieri”. Un affare “ufficiale, era tutto legittimo perché - sostiene Graviano, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo - mio nonno sosteneva che dovessimo essere scritti”. Almeno loro. Perché dietro c’erano altre famiglie palermitane a titolo di finanziatori.

“Il primo incontro avvenne nell’hotel Quark, nell’83. C’erano Berlusconi, mio nonno e mio cugino Salvatore. Noi affiancavamo mio nonno perché era anziano e dovevamo essere pronti a prendere il suo posto. Siamo andati con questa situazione, di tanto arrivavano un po’ di soldi e mio cugino non li divideva, ma li reinvestiva”. Qualcuno dei vecchi finanziatori nel tempo si è sfilato, ma l’affare – sostiene Graviano – sarebbe andato avanti spedito fino al ‘93

“A dicembre di quell’anno, c’è una nuova riunione a Milano. Io ero latitante dall’84. Mio cugino mi invita a partecipare. Si era arrivati alla conclusione che si dovesse regolarizzare la situazione e far emergere il nome dei finanziatori. Ci siamo incontrati con Berlusconi, con lui c’erano altre persone che non mi sono state presentate. Berlusconi sapeva che ero latitante”. E Graviano lo era da tempo, quasi dieci anni, sebbene – specifica – quel periodo passato a nascondersi non abbia mai implicato particolari privazioni. “Stavo ad Omegna, ma Milano mi serviva per gli incontri e la frequentavo, senza usare particolari precauzioni. Andavo a fare shopping in via Montenapoleone, andavo al cinema e a teatro”.

Ecco perché incontrare Berlusconi – sostiene il boss – non sarebbe stato un problema. “L’idea era di legalizzare la situazione per far emergere i finanziatori nella società immobiliare di Berlusconi in cui c’era mio nonno, che avevano appoggiato mio nonno, perché i loro nomi apparivano solo su una scrittura privata che ha in mano mio cugino”. Del resto, il volume d’affari era ormai imponente. Gli interessi nell’immobiliare riguardavano anche Milano 3, “lì Berlusconi aveva regalato a mio cugino un appartamento, abbiamo fatto anche una cena”.

E stando a quanto racconta il boss, è stato proprio durante uno di questi incontri che il padre padrone di Forza Italia avrebbe annunciato ai Graviano la propria intenzione di lanciarsi in politica. “Io sono a Omegna, lui lo dice a mio cugino Salvo, a cui chiede una mano in Sicilia”. Il boss non lo dice, ma Graviano lo fa capire che quell'aiuto c'è stato. Ma non riesce a non perdere la calma quando parla del "tradimento" di Berlusconi. "Berlusconi fu un traditore, perché quando si parlò della riforma del Codice penale e si parlava di abolizione dell'ergastolo mi hanno detto che lui chiese di non inserire gli imputati coinvolti nelle stragi mafiose".

Quasi le stesse parole che Graviano si era fatto scappare in carcere, parlando con Adinolfi. "Berlusconi prese le distanze e fece il traditore" aveva detto all'epoca. Ma oggi va oltre ""Un avvocato di Forza Italia mi disse che stavano cambiando il Codice penale - dice ancora Graviano - e che doveva darmi brutte notizie. Perché in Parlamento avevano avuto indicazioni da Berlusconi di non inserire quelli coinvolti nelle stragi. Lì ho avuto la conferma che era finito tutto. Mio io cugino Salvo era morto nel frattempo per un tumore al cervello. E nella riforma del Codice penale non saremmo stati inseriti tra i destinatari dell'abolizione dell'ergastolo". Ecco perchè  "questo mi portò a dire che Berlusconi era un traditore