Strage di piazza Fontana, viaggio nei luoghi dei “neri” che nessuno perquisì
Padova - Il negozio, il casolare, la libreria: dove s’è indagato tardi
La facciata bianca sotto i portici di via Patriarcato a Padova è come un colpo di calce su un passato buio, inconfessabile e lontano, che la città ha rimosso. Perfino il civico 34 non c’è più, il palazzo è stato ristrutturato. E così si passa dal 32 al 36, soltanto una finestra senza cornice è il segno che lì qualcosa è scomparso. Un tempo una saracinesca chiudeva l’ingresso di un garage trasformato in negozio-libreria, sede delle edizioni AR di Franco Freda. L’acciottolato è lo stesso di allora, a due passi dal Liviano, sede di Lettere, fucina di tutt’altre idee politiche. Perchè la libreria Ezzelino era un covo. Vi si leggevano i saggi di Evola, si programmava la guerra civile per favorire la restaurazione. E si pensava che le bombe avrebbero cambiato la storia. Non può che partire da qui, nella città universitaria che già allora incubava contrapposizioni ideologiche feroci, la ricerca degli orrori e degli errori di Piazza Fontana: qui è stato concepito il progetto e qui lo Stato ha manipolato la verità. Furono una ventina gli attentati di Ordine Nuovo e dei camerati diretti da Freda e Giovanni Ventura, dal 13 aprile al 12 dicembre 1969. Solo per gli episodi precedenti la strage vi fu (per entrambi) la condanna per associazione sovversiva. Poi le verità storiche hanno sostituito, per mancanza di prove, quelle giudiziarie.
Eppure sapevano già tutto, conoscevano quello che mancava a Pasolini, quando scrisse: “Io so. Ma non ho prove”. Avevano in mano un filo che portava al procuratore legale nazi-maoista. Sarebbe bastato seguirlo. “Era pomeriggio, entrò quell’uomo distinto, comperò quattro valigette con l’apertura a scatto. Due giorni dopo piazza Fontana ne vidi una foto in tv. E la riconobbi”. Loretta Galeazzo Beggiato, neo-mamma di 24 anni, faceva la commessa. La valigeria di Fausto Giuriati è ancora lì, sotto i portici, di fronte al Duomo. Freda aveva comperato le “diplomatiche” della tedesca Mosbach-Gruber per imbottirle di esplosivo, ma quella della Banca Commerciale non scoppiò. Era la prova principe. Loretta raccontò tutto al titolare del negozio, che andò in questura. Ed ecco il buco nero che inghiotte: “Non è successo nulla. Per tre anni nessuno ci ha chiesto più nulla, finchè, un giorno, arriva in negozio Pietro Calogero, il magistrato”. Ma è già il 1972, tre anni dalla bomba. Il riconoscimento di Freda a San Vittore ebbe esito negativo. “Avevo visto un uomo dai capelli lunghi e neri, mi mostrarono 5 brizzolati. Non ci riuscii ad essere utile”.
Avevano disinnescato l’inchiesta. Come era stato fatto con il commissario Pasquale Juliano che a Padova indagava ostinato, dal giugno 1969, dopo l’arresto di un camerata con esplosivo che usciva dal condominio di piazza Insurrezione, residenza del missino Massimiliano Fachini. Il custode dello stabile, Alberto Muraro, teste a carico dei neofascisti, morì cadendo dalle scale. Il silenzio, l’oblio. La strategia delle indagini sulla strategia della tensione. Delle valigette sappiamo ora che dalla Questura di Padova (3 febbraio 1970) fu inviata una segnalazione a quella di Milano e al famigerato Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, un pozzo senza fondo che ingoiò una ricevuta della fornitura di “diplomatiche” al negozio padovano. Avevano indagato per nascondere.
Quella fu la proto-inchiesta, la madre di processi senza verità. Poi sono venute le indagini degli anni Novanta. Ergastolo agli ordinovisti veneti Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi in primo grado. Assoluzioni in appello, perchè il pentito “Zio Otto”,alias Carlo Digilio, fu ritenuto inattendibile. Aveva detto che gli ordigni furono preparati in un casolare, nel Trevigiano, e che li vide nel portabagagli della Fiat 1100 di Maggi, lungo il Canal Salso, a Mestre. Il casolare esiste, in via della Libertà 1, a Paese. Ma solo nel 2008 è stato individuato, per quella che per il giudice Guido Salvini fu una colossale “dimenticanza”. Per 40 anni l’agenda di Ventura fu lasciata a Catanzaro, con annotati i nomi di Digilio e di un avvocato che si occupò del contratto d’affitto. Il proprietario ricordò la sua paura per aver scoperto che gli inquilini custodivano armi. Mezzo secolo fa era aperta campagna. Oggi il rustico, restaurato, è circondato da case a schiera. L’avessero scoperto prima, forse la storia avrebbe avuto un’altra fine.
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