Mafia Foggia, gli affari “puliti”: le ombre sul gasolio agricolo di contrabbando. E le indagini sul mosto e le banconote false per i Casalesi
LE STORIE DELLA QUARTA MAFIA - Con l'operazione Baccus, la Dda di Bari scoprì come, grazie ad alcuni imprenditori, i clan riuscissero a riciclare nel mercato vitivinicolo in Romagna. Ma gli occhi erano finiti anche sulla lavorazione dei pomodori, l'oro rosso del Tavoliere. Mentre alcuni uomini dei clan erano entrati in affari con i Venosa e i Mallardo per stampare milioni e milioni di euro falsi. In provincia, negli ultimi anni, sequestrati oltre 12 milioni di litri di carburante agricolo e pompe di benzina abusive: il traffico dall'Est e i sospetti su chi lo gestisca
Avevano messo i loro soldi in mano a imprenditori insospettabili per costruire “cartiere” dove far transitare i soldi di droga, usura ed estorsioni lavandoli nel mosto di vino. Qualcuno si era appassionato alla stampa di banconote fasulle, fatte così bene che i Casalesi avevano pensato a loro per utilizzare quelle centinaia di fogli di carta filigranata sottratta dalla cartiera Milani, l’unico posto in Italia dove si ‘producono’ le banconote da 20 euro. Poco più del doppio, invece, chiedevano gli uomini di uno dei boss di Foggia per poter “proteggere” i camion dei trasportatori di pomodori in attesa di scaricare il loro carico nella più grande azienda di lavorazione d’Italia, alle porte del capoluogo, dove la città incontra la campagna. Ed è proprio tra le distese di grano e dell’oro rosso della Capitanata, si sospetta che ora puntino davvero le famiglie malavitose della provincia.
La benzina agricola e i distributori clandestini – È lì che avrebbero fiutato un altro business sicuro, dall’odore forte. Quello della benzina agricola: 50 centesimi risparmiati dagli acquirenti, oltre 30 dai gestori. Un affare per tutti quello delle pompe clandestine grazie al carburante di contrabbando, fatto entrare in Italia senza pagare le accise. Così i distributori imboscati nelle campagne del Foggiano intascano circa 30 euro puliti ogni 100 litri venduti e riescono quindi ad applicare un prezzo ‘scontato’ ai loro clienti drogando il mercato regolare, dove invece ci vogliono mille e passa litri per raggiungere lo stesso ricavo. E ogni anno sono milioni i litri immessi nei serbatoi trattori e altri mezzi dopo essere entrati in Italia dall’Est Europa e, in parte, dalla Germania. Basta leggere le statistiche raccolte dalla Guardia di finanza: nel 2016 il consumo in frode accertato si aggirava attorno 6 milioni i litri di benzina agricola di contrabbando, diventati 6,7 nei dodici mesi dello scorso anno ai quali bisogna aggiungere i 176mila sequestrati. Un incremento che racconta di come questo business si stia espandendo lungo la Capitanata, da Lucera a Ordona fino a Sant’Agata di Puglia, dove le attività agricole un pilastro dell’economia e la richiesta di carburante è alta. I tributi evasi tra il 2018 e i primi mesi del 2019 superano i 10 milioni di euro. Un giro gigantesco, sistematico, strutturato sul quale si allunga l’ombra lunga dei clan che, è questo il sospetto, hanno fiutato il business e deciso di fare cartello per la gestione dell’import e il finanziamento dello stesso.
Il riciclaggio nel mondo del mosto – Non sarebbe la prima volta. I clan foggiani hanno già inquinato il mercato del mosto. Dell’uva, in realtà, non gliene importava nulla. Ma l’operazione Baccus, nel 2012, ricostruì come grazie ad imprenditoricompiacenti venivano costituite finte società vitivinicole che emettevano fatture senza Iva per la vendita del mostro in favore di una società del Ravvenate del “re del vino” Vincenzo Melandri, che nei suoi stabilimenti produceva mosto concentrato rettificato. La merce non esisteva, i soldi sì. Erano il frutto dell’usura, delle estorsioni e del business della droga e arrivavano in Emilia-Romagna attraverso corrieri che partivano da Foggia in auto. Ricevuto il contante, l’imprenditore romagnolo – coinvolto anche in altre inchieste – pagava le fatture maggioratedell’Iva. Così i clan riciclavano e si mettevano in tasca l’Iva, mentre Melandri ci guadagnava perché registrando acquisti di mosto incassava milioni di euro di contributi comunitari che, avendo in realtà comprato nulla, non gli spettavano. Uno schema che coinvolgeva, secondo la procura, tutte le principali batterie foggiane: capi e referenti dei Francavilla-Lanza, Moretti-Pellegrino e Trisciuoglio-Prencipe, oltre a esponenti storici della mala dauna come Cesare Antoniello. Una mafia imprenditoriale, in doppiopetto, che da un lato era in guerra per il controllo del territorio e dall’altro si era federata con l’obbiettivo di fare soldi facili. E puliti, lavandoli nel vino.
Il racket sui pomodori – Sporco ma facile era il business dell’oro rosso di Capitanata. Nel 2015 per parcheggiare i camion in attesa di entrare nella ditta Princes, multinazionale che nello stabilimento in zona Incoronata, alle porte del capoluogo, lavora circa 300mila tonnellate di pomodori all’anno, gli autotrasportatori dovevano pagare tra i 50 e i 100 euro. Altrimenti, mentre i camionisti riposavano, sarebbero stati rubati i cassoni con l’oro rosso della Capitanata. Alcuni, venivano anche schiaffeggiati. Il nome di chi pagava, invece, finiva in una lista e il suo tir era “protetto”. Così aveva deciso il boss Roberto Sinesi, l’uomo che controlla Foggia assieme a Rocco Moretti. E proprio approfittando della detenzione del suo rivale, secondo la procura, voleva allargare i suoi business. La ricostruzione della Dda di Bari è chiara ed è stata confermata fino al terzo grado di giudizio, anche se la Cassazione ha rimandato in appello per la sussistenza dell’aggravante mafiosa. Il parcheggio doveva essere sorvegliato giorno e notte, fino allo sfinimento. Tanto che, intercettati, due degli uomini che materialmente controllavano quanto avveniva davanti alla Princes, dicevano: “Quando dobbiamo dormire? Mai? Ci dobbiamo trasferire là, giorno e notte? Stiamo tutta la nottata svegli… almeno il pomeriggio dobbiamo dormire un poco”. “Eh mo vediamo… domani parlo con lo zio… dico… là ci vogliono altre persone”. Lo zio, secondo la procura, era Roberto Sinesi. La Corte d’Appello di Bari aveva riconosciuto l’aggravante mafiosa, ma la Suprema Corte ha disposto un appello-bis “limitatamente alla sussistenza” della mafiosità. Una storia complicata dal fatto che per il principale indiziato di aver taglieggiato gli autisti la Cassazione ha escluso la mafiosità.
Le banconote false per i Casalesi – Questa storia inizia invece il 3 novembre 2010, quando due finanzieri ritrovano un cilindro in cartone a bordo strada con dentro un foglio di carta filigranata sul quale c’è l’ologramma delle banconote da 20 euro. “Questo è un campione di quella carta, no tanta, e possiamo stampare circa 720 milioni di euro tutti da pezzi da 20 euro cadauno. Se ti interessa ho anche la matrice del computer. 328….”, è scritto in un biglietto all’interno del contenitore. Un errore pazzesco per gli uomini legati alla mafia foggiana, una traccia fondamentale per la Guardia di finanza. Perché da quel numero di telefono e dal contenuto parte un’inchiesta che porterà a svelare come i Casalesi avevano appaltato ai vicini pugliesi la stampa di banconote false. Il controllo della stampa e i contatti con i clan Venosa e Mallardo avvenivano – secondo la ricostruzione degli inquirenti e del Tribunale ordinario di Foggia – sotto la supervisione di Massimiliano Cassitti, nipote di una figura storica della Società foggiana come Franco Spiritoso, assassinato nel 2007, e Savino Ariostini, all’epoca vicino al clan Trisciuoglio. Erano stati i campani a recuperare la carta filigrana dalla cartiera Milani di Fabriano, l’unica fabbrica autorizzata alla produzione. “Se ci sposiamo, ci sposiamo, te l’ho detto, noi rimaniamo amici”, dice Ariostini al gancio con i Casalesi. “Ci siamo già sposati – rispondeva l’uomo – Mancano solo gli anelli”. All’altare, di fatto, non si arriverà mai. Perché quel cilindro con le prove della stampa attiva gli investigatori. E nonostante le banconote prodotte dal gruppo foggiano siano di qualità, accettate anche dalle macchinette dei distributori automatici, l’affare non va in porto. Prima i Casalesi temporeggiano, poi danno il via libera per consegnare direttamente tre bancali di carta filigranata in cambio di 80mila euro. I soldi ci sono raccolti – secondo l’accusa – da Ariostini e Cassitti dalle rispettive famiglie mafiose di riferimento. Da quel momento, Cassitti e Ariostini possono fare per conto loro. “Noi teniamo la forza. Qua non stiamo a parlare di un milione, qua stiamo a parlare di 21 milioni di euro”, si dicono al telefono facendo i conti di quanto potranno guadagnare. Ma la notte dello scambio qualcosa va storto. I finanzieri hanno ascoltato tutto e, lungo l’autostrada verso Avellino, fermano l’ambulanza sulla quale i foggiani avevano progettato di trasportare la ‘materia prima’ per la stampa, considerando sicuro il mezzo d’emergenza. A quel punto il tenore delle conversazioni dei foggiani cambia. “Siccome dall’altra parte c’è gente seria…”, accenna uno delle persone sotto accusa. “Abbiamo fatto la figura…”. “Che hanno fatto una figura di merda”.
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