lunedì 15 aprile 2019

                                                        13 h
“Venivano dalla madre Grecia e portarono la civiltà, l'organizzazione, il commercio, l'arte, le scienze, il pensiero.
Quando il Nord dell'Italia viveva ancora nella barbarie e Roma cominciava appena ad uscirne, una serie di città greche sparse lungo le coste dell'Italia meridionale e della Sicilia avevano già raggiunto un grande livello di civiltà e di prosperità.
A partire dagli insediamenti dei Calcidesi a Pithekuossai – l'odierna Ischia – e a Cuma, nella prima metà del secolo VIII a. C., molte altre città greche sorsero nel Sud dell'Italia: Sibari, Napoli, Messina, Selinunte, Agrigento, Gela, Megara-Iblea, Crotone, Paestum, Taranto, Metaponto, Locri, Reggio, Taormina, Catania, Siracusa e costituirono la Magna Grecia.
Esse, come la madre patria, furono "poleis", ciascuna indipendente.
Tutto in quelle città fu greco: la religione, la cultura, i templi, i dipinti, le statue, il modo di abitare, l'acropoli, l'agorà, il calendario, il sistema di pesi e misure.
Cinque secoli di storia straordinaria che costituirono un modello perenne di civiltà che s'irradiò pian piano nel resto della Penisola e in Europa. E fu proprio quella parte della Magna Grecia – oggi Calabria – a regalare il nome storico di "Italia" e porsi, insieme a tutte le altre città come luogo d'incontro tra Oriente ed Occidente.
Era nato un "nuovo uomo". Era nata una nuova grande civiltà. Era nata nel Sud dell'Italia.
Vennero da lontano, anzi da molto lontano i padri fondatori di quell'incredibile "fabbrica politica del Sud".
I loro antenati Vichinghi partirono dalla Scandinavia, "regno di Odino e dei mostruosi Kroll", e scesero verso ovest fermandosi sulle coste settentrionali della Francia che assunse il nome di Normandia.
Quei barbari, rozzi e incolti, nella loro discesa verso Ovest e verso Sud, seppero però, in breve tempo, accettare il credo cristiano, sostituire il primitivo linguaggio con la lingua d'oïl di origine latina e, in poche generazioni, formarono una perfetta società feudale con i loro cavalieri e i loro nobili
I Normanni, dunque, ormai cavalieri, pragmatici ed animati da ideali, scesero nelle nostre terre, cavalcando per pianure e città, addobbati con i loro elmi, i loro spadoni, le loro calzamaglie di fil di ferro, istillando pian piano la loro straordinaria capacità a raggruppare e organizzare popoli e terre, affari e ricchezze, rapporti e modi di vita, in qualcosa che essi chiamarono regno e che noi, oggi, chiamiamo stato.
E saranno gli Altavilla ad avviare quella "fabbrica del Regno"che con alterne vicende durerà molti secoli. Così, Ruggero I cominciò a gettare le fondamenta di uno stato plurietnico e poliglotto, nel quale Normanni e Greci, Saraceni e Latini avrebbero, sotto un controllo centralizzato, conservato le proprie fedi e tradizioni culturali, in perfetta armonia e reciproco vantaggio.
Il "Regno di Napoli" o "delle Due Sicilie" o "Sud" che dir si voglia era diventato nei secoli indipendente da chi lo governava, un vitalissimo organismo geopolitico.
Il Sud disponeva oramai di una sostanziale autonomia, di un'identità forte, fatta di popolazioni amalgamate, di un'economia agricola e marinara, di un vernacolo "consonantico" che era la lingua mediterranea, di tradizioni e costumi.
E sarà proprio Ruggero II, incoronato re nella notte di Natale del 1130, con la sua saggezza e determinazione, a compiere il passo qualitativo più importante nell'opera di edificazione del Regno e, cioè, la definizione di quelle norme valide per tutte le regioni del Sud (Assise di Ariano).
I Normanni, dunque, operarono la "reductio ad unum" sul modello greco-romano, di regioni poste all'incrocio di tre specchi del Mediterraneo. La capacità in altre parole, di edificare un regno sottratto alla parcellizzazione e alla dispersione dei poteri, tipica dell'età feudale, un regno via via più strutturato, un organismo politico con i suoi popoli, le sue lingue destinate a far "koinè", le sue città ricche di storia e d'arte, la sua economia mista tra agricola e mercantile e, ovviamente, le sue leggi e istituzioni.
Un regno, insomma, sganciato dal destino dei suoi re e governatori. Questi passano, il regno resta.
Venne dalla Spagna il giovane Carlo III di Borbone, figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese, con l'incarico di ricomporre il Sud, il Regno delle Due Sicilie.
E così, nel luglio del 1734 iniziò l'avventura dei Borbone del Sud. Un'avventura durata 126 anni, fino al 1860, che creò uno stato indipendente con le sue leggi, la sua economia, il suo esercito, le sue tradizioni, la sua bandiera, la sua dignità.
Carlo – "il re perpetuo" – fu uno dei più saggi, autorevoli ed illuminati sovrani d'Europa. Si circondò di uomini illustri ed esperti, a cominciare da Bernardo Tanucci, sostenne la cultura, migliorò le leggi, costruì grandi opere come la Reggia di Caserta dotata di un acquedotto di ventisette miglia e il Teatro San Carlo, massimo d'Europa. Si avviarono gli scavi di Ercolano e Pompei, si costruì l'Albergo dei Poveri, commissionato a Ferdinando Fuga, dove furono accolti gli indigenti di tutto il Regno e che rimane oggi il più grande edificio del settecento esistente. Commissionò la stesura di un codice ad autorevoli giuristi, fondò nelle province scuole ed accademie, tutelò le arti e il commercio, incentivò l'agricoltura ma, soprattutto, limitò i privilegi dei baroni.
Carlo III, dunque, seppe continuare, rafforzandola, quell'identità nazionale iniziata nel 1130, regalando al Sud e a Napoli uno di periodi più splendidi della loro storia, con una definitiva indipendenza ed autonomia che sarebbe continuata , con alterne vicende, con luci e ombre, anche con gli altri sovrani fino al 1860, quando il processo di unità nazionale italiano pose fine a quella straordinaria vicenda storica durata quasi otto secoli.
Vennero dall'ostile Piemonte i liberatori sabaudi, i fratelli d'Italia che, tradendo gli ideali democratici e risorgimentali che pur avevano animato tenaci, convinte e tal volta eroiche minoranze intellettuali, imposero la loro logica di annessione e di ampliamento territoriale.
E fu l'Inferno!
Una feroce guerra civile lunga quasi dieci anni. Migliaia di morti. Migliaia di prigionieri rinchiusi nei lager del Nord Italia. Intere città rase al suolo. Atti di barbarie, come le avvisaglie prenaziste del generale Cialdini. Il saccheggio dell'intera ricchezza di quello che era stato, in assoluto, il più ricco degli stati italiani.
Per Mafia e Camorra, poi, cui fu affidato subito l'ordine pubblico e la gestione del plebiscito, si aprì una nuova epoca: il potere pubblico – nella nascente Italia unita – aveva bisogno "istituzionalmente" dei loro servizi e pagava…pagava bene, come nel caso dei trentaquattro miliardi (a valore di oggi) girati alla Camorra.
Venne, poi, l'emigrazione forzata. Nel solo periodo che va dal 1876 al 1920, circa un milione e ottocentomila meridionali furono costretti ad emigrare in lontane terre, con il loro carico di dolore e di nostalgie.
Ma venne soprattutto l'incomprensione. La demonizzazione del meridionale, la "razza maledetta", "la palla al piede", le teorie razziste, giunte come si sa fino ai giorni nostri.
Ma sia ben chiaro: tutto ciò è potuto accadere anche grazie alle gravi responsabilità di molti meridionali presenti nella politica, nelle istituzioni, nell'economia, nell'informazione, che hanno tradito il loro popolo, svendendo per i propri tornaconti la dignità di milioni di persone. Ignobili figure da relegare nella discarica della storia.
Il Sud, però, dato più volte per spacciato è sempre riuscito a sopravvivere, a rialzarsi anche nei momenti più drammatici della sua lunga vicenda storica.
È rimasto vivo e geloso della propria identità, rigettando spesso inconsciamente, ogni sostanziale forma di adattamento estranea alla sua tradizione.
Una lunga storia quella della nazione meridionale che deve ritornare a guardare al futuro con la consapevolezza di aver avuto un grande passato.
Nuovi uomini, nuove donne, nuove sane energie che debbono oggi unirsi per costruire una "Comunità Politica" del Mezzogiorno, sviluppando un progetto di rinascita e di ricostruzione dell'identità territoriale.
Un esercito delle coscienze motivato e determinato pronto a marciare verso i sentieri delle future generazioni.”
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