LA NATURA È MATRIGNA, MA PURE L'UOMO CI METTE LO ZAMPONE: DIETRO L'''APOCALISSE'' IN VENETO C'È ANCHE LA SCELTA DI PIANTARE TUTTI ABETI ROSSI DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE. LO SPIEGAVA ANCHE MARIO RIGONI STERN: ECCO PERCHÉ LA MONOCOLTURA HA PEGGIORATO I DANNI DEL VENTO E DELL'ACQUA - CINQUEMILA FAMIGLIE ISOLATE, DIGHE PIENI DI TRONCHI, NON SI CONTANO LE FRANE - I VIDEO DALL'ELICOTTERO E DAL DRONE DEI VIGILI DEL FUOCO
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Maltempo in Veneto: la devastazione dall'elicottero dei Vigili del Fuoco
1. «IN VENETO SITUAZIONE APOCALITTICA»CINQUEMILA FAMIGLIE ISOLATE E AL BUIO
Giusi Fasano per il ''Corriere della Sera''
Tre parole che dicono tutto: «Situazione pesante, apocalittica». Il capo della Protezione civile Angelo Borrelli ha descritto così le aree venete colpite dal maltempo che ha visitato ieri assieme al presidente della regione Luca Zaia. È ormai da quasi una settimana che si contano i danni dell' acqua e del vento in Veneto, in Trentino Alto Adige e in Friuli. Ma è in provincia di Belluno che la situazione resta molto critica.
E basta elencare le singole difficoltà per capire il senso di quella parola, «apocalittica».
Nell' Agordino ci sono aree molto ampie nelle quali l' energia elettrica arriva solo grazie ai generatori portati con gli elicotteri dall' esercito, e comunque sono ancora circa cinquemila le famiglie isolate e al buio. La situazione delle strade è drammatica specie nelle parti più alte delle vallate, con centinaia di alberi a ostruire il passaggio che non sarà né semplice né veloce rimuovere.
Non si contano gli smottamenti e ci sono frane riattivate dalle piogge che fanno paura (per esempio quella del Tessina, ai Chies d' Alpago, e della Busa del Cristo, a Perarolo di Cadore). A Rocca Pietore l' acquedotto non esiste più, spazzato via dalla furia di vento e acqua. Il prefetto di Belluno, Francesco Esposito, invita a non bere, o far bollire per qualche minuto, l' acqua torbida che esce dai rubinetti.
I boschi, visti dall' alto, sembrano un immenso tavolo con mucchi di fiammiferi sparsi qua e là: decine di migliaia di ettari abbattuti che nessuno sa dire con precisione a quante singole piante corrispondano.
Le stime più prudenti dicono un milione e duecentomila alberi, quasi sempre conifere, ma Coldiretti e Federforeste ne ipotizzano fino a 14 milioni. Ci sono centinaia e centinaia di case che hanno subito danni, anche gravi, e l' inverno in arrivo renderà molto più complicati, se non impossibili, i lavori di risistemazione.
La stagione turistica invernale è alle porte ed è già partita la corsa contro il tempo per rimettere in funzione la rete elettrica in gran parte collassata proprio nella fascia montana delle richiestissime Dolomiti. Nella sola zona di Alleghe - fra le più devastate assieme a Rocca Pietore e Livinallongo del Col di Lana - ci sono 80 km di piste del comprensorio sciistico del Civetta: prima di aprire gli impianti sarà necessario fare verifiche su ogni pilone, ogni tratto di funivia e seggiovia. E c' è un problema con la copertura della rete telefonica perché il vento ha sradicato i ripetitori oltre a piegare tralicci come fossero fuscelli.
È venuta giù così tanta acqua e con tale violenza da stravolgere la rete idrografica, così anche piccoli torrenti possono aver smosso sassi enormi o aver reso instabili grossi massi in bilico su zone di passaggio.
Perciò si dovrà controllare ogni crinale e scarpata a bordo strada, valle dopo valle: un lavoro che probabilmente non sarà possibile finire prima delle nevicate. E, non ultimo, c' è chi guarda con preoccupazione alla prossima estate: con il caldo il numero impressionante di alberi morti potrebbe essere il terreno di coltura ideale per parassiti che potrebbero infestare anche la parte sana delle foreste. Insomma: un disastro. Che, stando a una prima stima, costerebbe un miliardo di euro di danni.
In val Saisera, in Friuli, come in val di Fiemme nel Trentino, sono andate distrutte le foreste di abeti rossi con cui si fanno gli Stradivari. In Veneto fanno tristezza le fotografie delle dighe che in superficie non hanno una distesa d' acqua ma di tronchi (come la diga del Comelico). «Mi si stringe il cuore» dice il vicepremier Salvini che oggi sarà sul posto, mentre il presidente Mattarella parla di «dolore per le immagini della devastazione». Riassume bene uno dei tanti ragazzi del Soccorso Alpino che lavorano senza sosta da una settimana: «Vedere le nostre montagne così è come vedere una ferita che sanguina».
2. IL PECCATO ORIGINALE DEGLI ABETI ROSSI AMATI DA RIGONI STERN - L' ERRORE DI PIANTARNE TROPPI DOPO LA GRANDE GUERRA
Gian Antonio Stella per il ''Corriere della Sera''
Immensamente più forte e rabbioso del «vento Matteo» narrato ne Il segreto del Bosco Vecchio da Dino Buzzati («tutti ne avevano grande terrore. Quando si avvicinava, gli uccelli smettevano di cantare, le lepri, gli scoiattoli, le marmotte e i conigli selvatici si rintanavano, le vacche emettevano lunghi muggiti...»), il vento furente di lunedì sulle montagne venete ha lasciato devastazioni apocalittiche.
Non trova altre parole, il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli, per descrivere lo scenario di vaste aree prealpine dagli altipiani al Trentino alla Carnia: «Situazione apocalittica, boschi spazzati via, strade devastate, tralicci piegati come fuscelli».
Certo, appena hanno potuto uscir di casa, tra case scoperchiate e tetti volati via e alberi sparpagliati a terra come grissini, Giorgio e Giuliano e Giovanni e Thomas e sua moglie Mara, invece che invocare l' arrivo degli elicotteri, dei caterpillar o dell' esercito erano già fuori con le motoseghe per liberare la strada che dalla contrada di Caracoi (Rocca Pietore) cala a valle. Forse trecento abeti rossi segati, agganciati col «zapìn» e rimossi. In cinque.
Fino all' arrivo dei primi soccorsi.
E con loro sono accorsi centinaia e migliaia di volontari. Da tutta Italia. Prova formidabile di professionalità, di dedizione, di generosità.
Un incoraggiamento ad affrontare un disastro mai visto. Che chiederà molti soldi («forse un miliardo, ipotizza Luca Zaia»), molti anni, molte fatiche.
Decine di migliaia di persone senza elettricità , senza acqua, senza collegamenti telefonici. Ponti crollati. Strade franate. Case e tabià danneggiati. Enormi ammassi di pietre e sassi scivolati a valle.
Torrenti e fiumi in piena stracolmi di alberi alla deriva. Laghi e bacini coperti da distese di tronchi di abeti rossi scortecciati, come nel caso della diga nel Comelico. E sullo sfondo l' incubo d' una stagione sciistica con le piste e gli impianti qua e là rovinati proprio alla vigilia dell' apertura delle funivie.
Certo non si è trattato di un fenomeno unico al mondo.
Basti ricordare la «Tempesta Lothar» che nel '99 colpì l' Europa centrale causando 137 morti e abbattendo milioni di alberi dalla Francia alla Foresta Nera tedesca. O le distruzioni del 2015 in Toscana fatte da venti a 209 chilometri orari. Tutta colpa della Natura?
In larga parte sì. Ma non solo.
Mario Rigoni Stern, i cui boschi asiaghesi sono stati ora devastati dalla tempesta, amava il peccio, o abete rosso: «È l' albero che è sempre stato presente e mi accompagna nella vita. Nella casa dove sono nato e ho trascorso la mia giovinezza, i mobili, le suppellettili, i pavimenti, le scale, le grandi e geometriche capriate del tetto, tutto era stato ricavato dai pecci dei nostri boschi: erano alberi feriti dalla guerra che per necessità di coltura, tra il 1919 e il 1922, si dovette abbattere.
Da ragazzi, alla festa degli alberi, erano sempre piantine di peccio che mettevamo a dimora nelle ampie chiarie causate dai combattimenti; come sempre di peccio erano centinaia di migliaia le piantine che i miei compaesani piantavano appena la neve liberava il terreno».
Lui stesso però, già ventisette anni fa, riconobbe che dopo l' annientamento dei boschi dovuto alla Grande Guerra, «fu un errore impiantare boschi puri di peccio: la monospecie e la coetaneità hanno un equilibrio molto fragile perché parassiti di ogni genere, malattie fungine, insetti e inclemenze stagionali possono in breve tempo rendere vani lavoro e capitale».
Vale per l' Altopiano dei Sette Comuni, spiega Marco Borghetti, uno dei massimi esperti italiani, docente di silvicoltura ed ecologia forestale, ma vale anche per gran parte dei boschi demoliti: «È bellissimo l' abete rosso. Bellissimo. È un albero che può arrivare a 48 metri d' altezza ma riesce a crescere, grazie a radici che non affondano troppo, anche su "suoli sottili", rocciosi, con poco spessore. Non ha le radici del larice, però. E quando viene giù, magari in un bosco molto folto e poco curato o addirittura lasciato a se stesso da anni, può abbattere uno sull' altro i pecci più vicini. È un problema, aver troppi abeti rossi, tutti abeti rossi».
«Chissà che i boschi che saranno ripiantati siano diversi: non solo pecci ma più larici, faggi, aceri, magari ciliegi selvatici», spera Daniele Zovi, generale della Forestale, autore di Alberi sapienti, antiche foreste dove scrive delle piante non come oggetti ma come «esseri sensibili che comunicano fra di loro». Esseri capaci di provar dolore: «Cos' è, l' odore della resina di questi giorni se non un urlo di dolore?» Come ricorda Rigoni Stern in Arboreto selvatico, l' albero ha sempre «esercitato sugli uomini sensazioni di mistero e di sacro e il bosco è stato il primo luogo di preghiera».
Tanto che Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia, dice che «non meno degli Dei, non meno dei simulacri d' oro e d' argento, si adoravano gli alberi maestosi delle foreste». Lo sapevano, i nostri vecchi che si prendevano cura dei boschi dal Pollino alla Garfagnana, dalla Mesola al Cadore: i boschi dovevano avere un equilibrio.
E più ancora lo sapeva la Serenissima Repubblica, la cui vita stessa dipendeva da quei boschi. Per le palafitte su cui posa Venezia, per il marginamento delle isole protette da fittissime palizzate, per la legna delle fornaci di Murano, per l' arsenale che ai tempi in cui era il più grande cantiere navale del mondo e divorava abeti (per gli alberi) e roveri (per l'«anima» delle navi) e faggi (per i remi) e querce al punto che Iseppo Paulini, compilò nel 1608 perfino un manuale illustrato per mostrare come le piante vanno potate e come il diboscamento vada fatto per settori, creando un ciclo continuo che permetta la salvaguardia della foresta.
E guai a chi attentava a questo equilibrio perché, dice un documento del Seicento, «el dito desboscar è causa manifesta del far atterrar questa nostra laguna, non avendo le pioge et altra inundation alcun ritegno ne obstaculo, come haveano da essi boschi, a confluir in esse lagune». Chi segava alberi senza permesso finiva per anni «in una galea de condanati a vogar il remo con ferri ai piedi».
E tutto per evitare nuove inondazioni come quella del 1686 ricordata in una poesia: «Torna, amigo, el deluvio universal / piova continua e l' aqua sempre cresse / Venessia è deventada un gran canal / dove i cocai va a becolar el pesse».
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