sabato 10 agosto 2024

 

UN PRESIDENTE DI BOSCO E DI RIVIERA - BARBARA COSTA: "L'EX PRESIDENTE AMERICANO NIXON ERA GAY, ALCOLIZZATO, E MENAVA LA MOGLIE. ERA COMPLESSATO, UN FIFONE, UN PARANOICO GRAVE - ERA INNAMORATO DI BB, CHE NON STA PER BRIGITTE BARDOT, MA PER BEBE CHARLES REBOZO, BANCHIERE DI MIAMI, I CUI LEGAMI CON LA MAFIA SONO NOTI A TUTTI, MA NIXON HA SEMPRE PROTETTO IL SUO BEBE DA OGNI INDAGINE - UNA SERA L'EX PRESIDENTE, UBRIACO, HA ORDINATO DI BOMBARDARE LA COREA DEL NORD. I COLLABORATORI AVEVANO AVVERTITO CHI DI DOVERE DI NON DAR SEGUITO A NESSUN SUO ORDINE PROVENIENTE DOPO LE 8 DI SERA..."




Barbara Costa per Dagospia

 

richard nixon 2richard nixon 2

Per far cagar sotto un presidente americano lo devi sottoporre a impeachment, non c’è altra strada! Certo, dipende dal presidente, ma se ce ne hai uno già cacasotto di suo… Il 9 agosto di 50 anni fa Richard M. Nixon si dimetteva da presidente degli Stati Uniti, e perché?

 

Versione passata alla Storia: per i maneggi dello Scandalo Watergate, l’insieme di azioni di spionaggio e corruzioni e impicci vari – pagati coi soldi pubblici – compiute da manigoldi che, se segui le mazzette che li finanziano e li muovono, ci scopri che agivano in nome e per volere e per fine del presidente Nixon.

 

nixon lettera dimissioni 9 agosto 1974nixon lettera dimissioni 9 agosto 1974

Ok. Ma Nixon si è dimesso non come dicono gli asini per l’inchiesta sul Watergate del Washington Post (la stampa, se fatta bene, può scoperchiare vasi di Pandora, NON far dimettere un presidente) ma perché messo spalle al muro: nonostante l’evidenza delle prove a carico, Nixon non voleva dimettersi, più cocciuto di Biden.

 

Nixon si dimette quando, alla conta, gli risulta che la maggioranza dei repubblicani, per tenersi il c*lo sul seggio, avrebbe votato sì al suo impeachment coi democratici. E si dimette solo sotto sicurezza di ricevere il perdono presidenziale dal suo vice Ford che prende il suo posto. Perdono che arriva e che lo salva da ogni processo.

 

Sì, ma… Nixon mica aveva solo gli intrallazzi del Watergate, da nascondere. Già. Lui in realtà era gay, alcolizzato, e menava alla moglie. Era un complessato senza ritorno, un fifone, un paranoico grave, uno che spiava gli stessi collaboratori che aveva scelto.

 

nixon dimissioninixon dimissioni

Sebbene si sia speculato su più di una amante cinese a letto con Nixon a "aprirgli" alla Cina, e c’è chi ricorda una certa Marianne Liu tra le sue favorite, è più probabile che Richard M. Nixon fosse innamorato di BB., che non sta per Brigitte Bardot, ma per Bebe Charles Rebozo, banchiere di Miami, i cui legami con la mafia (in particolare col boss Santos Trafficante) oggi sono noti a tutti ma ai tempi tanto a Nixon, che ha sempre protetto il suo Bebe da ogni possibile indagine.

 

Bebe talvolta era ospite alla Casa Bianca ma più spesso, con la scusa ufficiale di giocare a golf (!), era Nixon a raggiungerlo in Florida, sull’isola di Key Biscayne, e il fatto che a volte Nixon si portasse dietro la First-Lady, era ottima copertura.

 

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Nixon sposa nel 1940 Patricia, ci fa due figlie, e ci rimane insieme per la vita. Di certo la povera Pat era vittima dell’ira del marito ogni volta che perdeva un’elezione. Nel 1960 Nixon perde per una manciata di voti la presidenza contro John F. Kennedy, e non l’ha mai dimenticato. Nixon era convinto che JFK l’avesse fregato. Se ne fa una malattia.

 

Nixon chiede il riconteggio, e se la prende in quel posto, perché ricontano i voti e sì, c’è un errore: le Hawaii, vinte da Nixon, passano al presidente Kennedy! Nel 1962, Nixon si candida governatore della California: altra grossa batosta. È qui che avviene "l’incidente dell’Ambassador Hotel": appreso di aver perso, Nixon, preda dei fumi dell’alcool, vaneggiando un’altra manovra di Kennedy a suo danno (che in realtà non se lo filava di striscio) prima mena alla moglie per poi, ubriaco fradicio, scendere nella hall dove stanno i giornalisti.

 

E strilla la frase che il giorno dopo campeggia su tutti i giornali: “Non avrete più un Nixon da prendere a calci nel c*lo!”. Testuale. E Nixon lo sapeva, che “quel rompicaz*o” (così lo chiamava) di J. Edgar Hoover, il capo dell’FBI (gay pure lui, clandestino, conviveva col suo vice), aveva le prove delle sue corna omo a Patricia. Hoover spiava Nixon con Rebozo, e sapeva che le banche di Rebozo riciclavano i soldi sporchi della mafia. Quando nel 1972 Hoover muore, per Nixon è gran sollievo.

 

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Nella bio uncensored "Nixon’s Darkest Secrets", di Don Fulsom, si viene a sapere che il Nixon gay montava in escandescenze di fronte a gay dichiarati: la volta che scopre che un impiegato della Casa Bianca era gay, e non lo nascondeva e si viveva in privato la sua vita, Nixon lo vuole cacciare, e gli dà del “malato, una persona del genere non può lavorare con me”.

 

Fulsom ne sa più del diavolo: Nixon e Rebozo s’amavano a Camp David fin da quando Nixon era il vicepresidente di Eisenhower: li ha fatti conoscere un loro amico in comune, il sen. George Smathers. Tanti vestiti di alta sartoria, indossati da Rebozo, erano regali di Nixon. Il loro gioco preferito, fuori dal letto, era farsi scherzi da adolescenti, nudi, in piscina.

 

Si sa: un Nixon ubriaco ha ordinato una notte di bombardare la Corea del Nord, e chi gli stava al governo più vicino, come Henry Kissinger, aveva di sua sponte avvertito chi di dovere di non dar seguito a nessun ordine proveniente da Nixon dopo le 8 di sera.

 

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Nixon, quando non vedeva il suo amante Bebe, passava le serate sbronzo, ad ascoltare le registrazioni che di nascosto faceva fare ai suoi ministri, fissato che gli facessero gioco sporco. Gli stessi nastri che, Scandalo Watergate scoppiato, inguaiano lui. Quando il giudice (italiano) Sirica scopre che ci sono "quelle" conversazioni registrate di nascosto alla Casa Bianca, ne ordina al presidente la consegna. Nixon non vuole dargli nulla.

 

Lo sa che lì c’è tutto, e c’è pure lui che ordina le illegalità del Watergate. Sirica insiste. Alla fine, dopo aver licenziato due ministri della Giustizia, uno dietro l’altro (i quali porelli avevano l’unica colpa di dar ragione a Sirica, come da legge) Nixon dà a Sirica i nastri. Ma cancellati nelle parti dove parla lui!!! Oggi li hanno sistemati, e online si ascolta la voce impastata di whisky di Nixon che ne bofonchia di ogni.

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C’è chi tra i nastri giura vi siano catturate pure le conversazioni d’amore e di gelosia tra Nixon e Rebozo. Io non le ho mai scovate. I famosi Bob Woodward e Carl Bernstein, i giornalisti del Washington Post che per primi e meglio hanno seguito lo Scandalo Watergate, nei loro libri narrano di un Nixon che, le notti prima di dimettersi, vaga insonne per la Casa Bianca, ubriachissimo, e ride da solo e parla a voce alta, da solo, e che dà la colpa di tutti i suoi guai a John Kennedy, morto ammazzato 11 anni prima. 

 

A Nixon succede il vice presidente Gerald R. Ford. Passato alla Storia per essere caduto dalla scaletta dell’Air Force One. Ma non come Biden. Cade davanti, a modello scopa. Sbam.

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giovedì 8 agosto 2024

 

COSA C’È DIETRO L’OMICIDIO PECORELLI? LA TRAMA OSCURA CHE METTE IN CONNESSIONE IL DELITTO MORO, LA P2 E LICIO GELLI, ACCUSATO DI AVER ORDINATO L’OMICIDIO DEL GIORNALISTA (CHE PER CINQUE MESI FU ISCRITTO ALLA LOGGIA MASSONICA) – GELLI FU INQUISITO INSIEME A CARMINATI, EX CAPO DEI NAR, MA IL FASCICOLO FU ARCHIVIATO FINO A QUANDO LE RIVELAZIONI DI PENTITI RIAPRIRONO LE INDAGINI: PEZZI DA 90 DI COSA NOSTRA E DELLA MAGLIANA VENNERO ACCOMUNATI AD ANDREOTTI, TIRATO IN BALLO DA TOMMASO BUSCETTA CHE RIVELÒ COSA GLI DISSE IL BOSS TANO BADALAMENTI: "PECORELLI FU ELIMINATO SU RICHIESTA DI ANDREOTTI PERCHÉ STAVA APPURANDO COSE COLLEGATE AL SEQUESTRO MORO…"




Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”

 

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Del delitto Moro Mino Pecorelli scrisse molto, facendo capire di saperne anche di più. La sua agenzia di stampa OP s’era trasformata in settimanale pochi giorni dopo il sequestro del leader democristiano, e da allora cominciò ad avanzare dubbi, allusioni e domande che ricorrono tutt’oggi sui misteri (fondati o meno) intorno a quella vicenda. Ad esempio sul memoriale dell’ostaggio trovato dai carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa il 1° ottobre 1978 e diffuso poco dopo, incompleto fino alla seconda scoperta, nello stesso covo brigatista, del 1990; già di fronte alla prima versione Pecorelli accennava a «memoriali veri e memoriali falsi», e a un documento «mal confezionato», con richiami criptici e incomprensibili al grande pubblico. Non invece ai selezionati destinatari dei suoi messaggi.

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C’è chi dice che il direttore di quell’anomala agenzia divenuta rotocalco sia stato assassinato per questo, il 20 marzo 1979, a un anno e quattro giorni dal rapimento di Moro. Con quattro colpi di pistola calibro 7,65 silenziata, uno in pieno volto. Un omicidio senza testimoni — a parte sommarie descrizioni di un killer con l’impermeabile bianco e di presunti complici in attesa della vittima — eseguito con modalità più mafiose che terroristiche. Rivendicazioni ce ne furono, ma false. Gli avvertimenti e le minacce passate, invece, erano vere.

 

Troppi moventi Di possibili moventi, caso Moro a parte, c’era solo l’imbarazzo della scelta. Basta scorrere gli articoli di OP per leggere continui riferimenti agli scandali del tempo (Lockeed, Italcasse, Imi-Sir, Sindona e non solo), alle stragi, ai dossieraggi e alle trame del sottobosco politico romano, ai servizi segreti e alle loro guerre intestine, alla massoneria infiltratasi finanche in Vaticano.

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Ambienti dove Pecorelli mostrava di muoversi con grande disinvoltura, probabilmente troppa. Nei quali c’era forse chi lo voleva morto e sicuramente chi continuò a muoversi per indirizzare o depistare le indagini. Da subito.

 

La sera del 22 marzo, un anonimo chiamò sul telefono di casa il procuratore di Roma Giovanni De Matteo, indicando il mandante del delitto in «tal Lucio Gelli, residente all’Hotel Excelsior di Roma, stanza 127». Ipotizzò pure un movente: «Rivelazioni fatte o da fare in merito al possesso di documenti esplosivi riguardanti alte personalità», forse collegate all’uccisione avvenuta tre anni prima del magistrato romano Vittorio Occorsio, che indagava sui contatti tra neofascisti, criminalità e massoneria.

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Il procuratore De Matteo chiese accertamenti al colonnello dei carabinieri Antonio Cornacchia, il quale una settimana dopo comunicò che effettivamente all’ Excelsior alloggiava «tale Licio (non Lucio) Gelli, diplomatico. Nessuna controindicazione, almeno per il momento, è emersa nei suoi confronti».

Quando nel 1981 fu scoperchiata la Loggia segreta P2 guidata proprio da Gelli, il nome di Cornacchia comparve tra gli iscritti, dall’aprile 1980, nonostante lui abbia sempre negato; Pecorelli invece aveva aderito il 1° gennaio ’77, ma dopo 5 mesi si era dimesso con una risentita lettera inviata al Venerabile Maestro.

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L’ombra di Gelli Anni dopo Licio Gelli fu accusato, fra l’altro, di aver ordinato l’omicidio di Pecorelli. Non per la segnalazione anonima al procuratore De Matteo, ma per altri elementi. Tra cui i duri attacchi rivolti da OP al Venerabile e alle sue manovre occulte, con riferimenti a dossier e rapporti ambigui nel mondo politico e militare. Un dato certo, che prescinde dell’esito dell’inchiesta.

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Insieme a Gelli fu inquisito l’ex colonnello dei servizi segreti Antonio Viezzer (tessera P2 1618), mentre Valerio Fioravanti e Massimo Carminati — l’ex capo dei Nar accusato da alcuni pentiti dell’eversione nera, e il neofascista legato alla banda della Magliana — come presunti esecutori. Ma gli indizi non si tramutarono in prove, e nel 1991 il fascicolo finì in archivio. Finché l’anno successivo altri pentiti, stavolta di mafia e della criminalità romana, provocarono la riapertura delle indagini su Carminati. Con altri complici e mandanti: nomi importanti di Cosa nostra e della Magliana accomunati a quello di Giulio Andreotti, il sette volte presidente del Consiglio tirato in ballo da Tommaso Buscetta, il principe dei «collaboratori di giustizia» che aveva guidato Giovanni Falcone nei meandri della mafia ma solo dopo la morte del giudice decise di svelare i legami a più alto livello tra Cosa nostra e la politica romana.

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Ne scaturì un processo (celebrato a Perugia dopo che i pentiti della Magliana chiamarono in causa l’ex magistrato romano Claudio Vitalone) in cui furono tutti assolti, salvo la parentesi di una condanna in appello per Andreotti e il boss Tano Badalamenti, annullata definitivamente dalla Cassazione.

 

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Secondo Buscetta, proprio Badalamenti gli aveva riferito che il giornalista era stato eliminato su richiesta dell’allora capo del governo perché stava «appurando cose politiche collegate al sequestro Moro»: ancora quell’azione brigatista così dirompente nella storia della Repubblica. A «chiamare» Carminati erano state invece le dichiarazioni dei pentiti della Magliana. Tra cui Fabiola Moretti, protagonista di una delle «collaborazioni» più contrastate: disse che Danilo Abbruciati, uno dei capi della gang ammazzato nel 1982, le parlò di una pistola in dotazione alla banda su cui c’era «l’abbacchio di Pecorelli»; espressione cruda ma efficace per indicare l’arma con cui fu ucciso il giornalista.

Che non è stata mai trovata, e rappresenta uno dei buchi neri di questa storia.

 

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Pistole e proiettili Sempre nel 1992 un altro «dichiarante» — il neofascista ergastolano Vincenzo Vinciguerra, mai pentito ma reo confesso della strage di Peteano — raccontò che Adriano Tilgher, suo ex «camerata» in Avanguardia nazionale, gli aveva confidato che un altro militante di An, Domenico Magnetta, chiedeva aiuto all’organizzazione per uscire dal carcere, minacciando altrimenti di consegnare agli inquirenti la pistola che sparò a Pecorelli. Ipotesi suggestiva, poiché Magnetta, nell’aprile 1981, era stato arrestato mentre cercava di passare il confine tra Italia e Svizzera insieme a Massimo Carminati.

Tilgher e Magnetta hanno smentito Vinciguerra, e i successivi accertamenti non hanno aggiunto riscontri. Comprese le comparazioni fatte tra alcune armi sequestrate nel 1995, che sarebbero state nella disponibilità dell’ex militante di An, e i bossoli recuperati sul luogo del delitto Pecorelli: due di marca Fiocchi e due Gevelot. Quelle pistole furono poi distrutte con regolare autorizzazione; non altrettanto i bossoli, uno dei pochi punti fermi di questo omicidio e allo stesso tempo un ulteriore mistero.

 

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Le analisi sui due Gevelot, all’epoca piuttosto rari, dimostrarono la provenienza dei proiettili da uno stock della stessa marca scoperto nel 1981 in un deposito clandestino nascosto negli scantinati del ministero della Sanità; un arsenale al quale avevano accesso i banditi della Magliana e i neofascisti dei Nar. Oggi però quei bossoli sembrano spariti: negli archivi giudiziari non ce n’è più traccia, e non ci sono verbali di distruzione.

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Restano le foto scattate all’epoca delle perizie, indizio sicuro (forse l’unico) su dove cercare gli assassini: in quel grumo fascio-criminale al servizio di interessi esterni, entrato in azione altre volte.

Ad esempio nel 1982, quando Abbruciati fu ucciso a Milano mentre sparava al vicepresidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone, altra oscura vicenda di stampo piduista.

Chi ce l’aveva mandato è rimasto un enigma anche per i suoi complici della Magliana.

 

Delitto su commissione L’omicidio del direttore di OP sembra avere lo stesso marchio del delitto su commissione. Nel 2023 gli avvocati di Rosita Pecorelli, sorella del giornalista, hanno chiesto la riapertura delle indagini a carico di Fioravanti, sulla base delle considerazioni svolte dai giudici di Bologna nelle ultime sentenze sulla strage del 2 agosto 1980 che lo additano come un killer per conto terzi. Strada strettissima e impervia, dove è difficile scorgere reali elementi di novità.

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Il pomeriggio del 20 marzo ’79 Rosita andò a trovare il fratello in redazione, insieme alla figlia che festeggiava il compleanno. Lui le confessò di sentirsi stanco ma sollevato dalla promessa di un finanziamento con il quale sarebbe stato in grado di saldare tutti i debiti, e in un paio d’anni contava di ritirarsi per condurre una vita più tranquilla.

Non fece in tempo, qualcuno ancora sconosciuto aveva fretta di chiudergli la bocca.

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