giovedì 10 dicembre 2020

                                                                    VIRUS 2020


Oxford Astrazeneca, così il vaccino più promettente ora insegue gli altri (e la fiducia di scienziati e autorità è calata). Garattini: “I dati scientifici non possono uscire sui comunicati stampa”

Oxford Astrazeneca, così il vaccino più promettente ora insegue gli altri (e la fiducia di scienziati e autorità è calata). Garattini: “I dati scientifici non possono uscire sui comunicati stampa”

Sono tanti i fattori che hanno gettato ombre su quello che fino a poco tempo prima era considerato il più promettente candidato. Dubbi degli esperti dopo errori di comunicazione, poca trasparenza, incidenti nei test. Nel frattempo slitta l'approvazione in Usa

Nonostante i ricercatori di Oxford/Astrazeneca siano stati i primi a pubblicare i risultati dei test di fase III, una serie di “gaffe” hanno di fatto minato la fiducia sull’efficacia e sulla sicurezza del loro vaccino anti-Covid. Non solo la fiducia dell’opinione pubblica in generale, ma anche quella più qualificante di scienziati e autorità regolatorie. Nel report pubblicato ieri dalla rivista The Lancet, i ricercatori riferiscono che il vaccino “ChAdOx1 nCoV-19” – questo è il nome del siero di Oxford/Astrazeneca – funziona in media nel 70% dei casi. Più precisamente l’efficacia è del 62% nel campione che ha ricevuto 2 dosi piene e del 90% nel campione che ha ricevuto prima mezza dose e poi una dose piena. Dati, quest’ultimi, anticipati da AstraZeneca ai media, dopo l’annuncio di Pfizer e poi di Moderna che i loro candidati sarebbero efficaci in oltre il 90% dei casi.

Il susseguirsi di dichiarazioni “ufficiose” si è rivelato decisamente controproducente. La poca chiarezza dei dati presentati, con percentuali di efficacia così variabili, hanno gettato ombra su quello che fino a poco tempo prima era considerato il più promettente candidato vaccino contro Covid-19. Il fatto che il vaccino “ChAdOx1 nCoV-19” risulti più efficace quando somministrato inizialmente a metà dose è apparso subito controintuitivo. A peggiorare le cose poi, è stato il fatto che i ricercatori di Oxford non sono riusciti a spiegare con certezza il perché. La situazione è andata poi peggiorando, quando Moncef Slaoui, a capo dell’operazione Warp Speed, il piano del governo Usa per i vaccini anti-Covid, ha detto ai giornalisti che il regime “a mezza dose” non era stato testata su persone di età superiore ai 55 anni, cioè sui soggetti più vulnerabili al Covid-19. Un’informazione, questa, che pare AstraZeneca non abbia evidenziato prontamente, almeno non secondo un’analisi pubblicata sul New York Times. Anche nell’ultimo studio pubblicato su The Lancet non sono state date spiegazioni sufficienti in merito. E in assenza di queste informazioni i risultati pubblicati “non saranno sufficienti per un’approvazione”, dichiara Slaoui.

Gli “scivoloni” di AstraZeneca non si fermano a questo. Sempre ieri è emerso un altro dubbio. L’articolo di The Lancet riporta che alcuni partecipanti che all’inizio hanno avuto metà dose, non hanno poi ricevuto il richiamo fino a tre mesi dopo. Ma, stando ai piani originali, i partecipanti avrebbero dovuto ricevere la seconda dose circa un mese dopo. Anche qui nessuna valida spiegazione. Tuttavia, la gaffe più eclatante riguarda il caso di un volontario della sperimentazione in Gran Bretagna che ha sviluppato importanti sintomi neurologici. Il caso ha destato così tanta preoccupazione da spingere i ricercatori stessi a interrompere i test. Decisione, questa, che secondo il New York Times non sarebbe stata subito condivisa. Due giorni dopo l’accaduto, in effetti, i rappresentati di AstraZeneca non hanno menzionato del problema alla Food and drug administration (Fda), l’agenzia americana deputata al controllo dei farmaci, con la quale erano impegnati in una teleconferenza proprio per discutere del vaccino. Pare che l’azienda avesse omesso questa importante informazione ai regolatori americani che invece ritenevano fondamentale essere aggiornati tempestivamente. Anche perché il governo degli Usa aveva promesso più di 1 miliardo di dollari ad AstraZeneca per finanziare lo sviluppo e la produzione del suo vaccino in modo che l’azienda potesse fornire 300 milioni di dosi agli Usa una volta dimostrata l’efficacia del siero. Il ritardo con cui AstraZeneca avrebbe avvertito la Fda circa i possibili sintomi neurologici – in seguito si è verificato un secondo caso di mielite trasversa – ha tardato di quasi sette settimane l’inizio dei test negli Usa. Anche se poi indagini successive hanno “scagionato” il vaccino, il danno era stato fatto. Ancora oggi non sarebbero stati arruolati tutti i volontari. Dovrebbero arrivare a quota 30mila in quanto la Fda avrebbe espresso la volontà esaminare i dati riguardanti un numero maggiore di partecipanti.

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In Gran BretagnaBrasileIndia e Sud Africa, invece, le autorità di regolamentazione hanno consentito la ripresa dei test in meno di una settimana. In Giappone, la pausa è durata poco meno di un mese. Ma negli Stati Uniti il ritardo si è trascinato. Durante questa pausa prolungata, non è stato possibile arruolare nuovi partecipanti allo studio e il piccolo numero di volontari che avevano ricevuto la loro prima vaccinazione nei primi giorni della sperimentazione hanno avuto richiamo circa un mese dopo. Alla fine di ottobre, dopo 47 giorni, la Fda ha autorizzato l’inizio dei test negli Stati Uniti. Ora la sperimentazione è indietro rispetto a quelle di Pfizer e Moderna.

Intanto, scienziati indipendenti e analisti del settore hanno criticato AstraZeneca e Oxford per non essere sufficientemente trasparenti sui loro primi risultati, sulla progettazione dei loro studi e sui problemi di sicurezza. Il punto più critico è che non è chiaro quanto bene funzioni il vaccino. “Il mondo ha scommesso su questo vaccino”, commenta Eric Topol, esperto di sperimentazione clinica presso lo Scripps Research di San Diego. “Che delusione – aggiunge -. Quello che hanno fatto è diminuire la credibilità e non so come faranno a riconquistarla”. Dal canto suo AstraZeneca respinge ogni accusa e sospetto. “Continuiamo a condividere tutti i dati con la Fda e altri regolatori in tutto il mondo in modo tempestivo”, precisa un portavoce dell’azienda, Michele Meixell. Certamente sviluppare vaccini non è un processo semplice ed è normale che si verifichino ritardi. Anche Moderna e Pfizer, i cui vaccini contro il coronavirus sembrano essere efficaci al 95% e che sono in attesa dell’approvazione della Fda, hanno subito ritardi. “Sono cose che possono succedere quando si fa ricerca scientifica e, infatti, capitano spesso”, spiega Silvio Garattini, farmacologo e presidente dell’Istituto Mario Negri di Milano. “Il pasticcio che secondo me avrebbe fatto Astrazeneca è più che altro comunicativo: non si può e non si devono divulgare informazioni importanti, in un contesto delicato come quello creato da questa pandemia, tramite comunicati stampa o interviste sui media. Abbiamo bisogno – dice – di pubblicazioni scientifiche su riviste serie e non annunci più o meno propagandistici”.

Nonostante tutti i problemi, è probabile che il vaccino di AstraZeneca e Oxford sia tra i più veloci mai sviluppati. Questo grazie a un lavoro iniziato molti anni prima dello scoppio di questa pandemia. Il vaccino, infatti, utilizza un approccio che gli scienziati stanno testando da decenni. Il siero si basa su un virus geneticamente modificato per essere innocuo. Si tratta di un adenovirus, responsabile del comune raffreddore negli scimpanzé, che viene modificato in laboratorio in modo che possa “addestrare” il sistema immunitario a rispondere a un virus minaccioso, in questo caso, quello che causa il Covid-19. Nel 2018, i ricercatori di Oxford avevano condotto uno studio sulla sicurezza di questo approccio con un vaccino sviluppato contro la Mers. Quindi, quando è emerso Covid-19, i ricercatori di Oxford avevano a disposizione una piattaforma di vaccini che si era dimostrata sicura da usare contro un coronavirus simile. Quando i ricercatori cinesi hanno rilasciato la sequenza genetica del virus che causa il Covid-19, lo scorso 9 gennaio, una ricercatrice di Oxford, Sarah Gilbert, ha iniziato subito a lavorare alla creazione del vaccino e a marzo sono subito iniziati i test sulle scimmie. Il passo successivo dei ricercatori inglesi è stato quello di trovare un’azienda farmaceutica che contribuisse allo sviluppo del vaccino e che in seguito si occupasse della produzione e distribuzione. Dopo vari colloqui, la scelta dei ricercatori inglesi è ricaduta su AstraZeneca che, dal canto suo, ha accettato di distribuire il vaccino in tutto il mondo a costi contenuti almeno fino a luglio 2021 e nei paesi più poveri per sempre. Lo svantaggio era che AstraZeneca, nota per i farmaci contro cancro, asma e altre condizioni croniche, aveva scarsa esperienza con i vaccini.

Ma fin dall’inizio, gli scienziati di Oxford si sono mostrati molto fiduciosi sul loro vaccino. Già lo scorso aprile, Gilbert aveva dichiarato a un giornale britannico che era sicura all’80% che il vaccino avrebbe funzionato, anche se non era stato testato sugli esseri umani. A quel punto, Moderna aveva già iniziato a testare il suo candidato vaccino sulle persone. Le affermazioni del team di Oxford si sono subito scontrate con lo scetticismo di alcuni scienziati che hanno espresso dubbi sull’approccio e sull’ambiziosa tempistica. “Alcuni erano un po’ scettici circa le affermazioni arroganti che venivano fatte”, riferisce Stuart Neil, un virologo del King’s College London. Ma il governo britannico e quello americano hanno deciso di investire nel vaccino. La Gran Bretagna ha ordinato 100 milioni di dosi, con l’obiettivo di effettuare almeno 30 milioni di vaccini entro settembre. E a seguire sono stati stipulati accordi anche molti altri paesi. Anche se in futuro avessimo a disposizione altri vaccini, l’offerta di AstraZeneca sarebbe tra le più competitive. Tanto che, secondo Airfinity, una società di analisi che tiene traccia degli accordi tra produttori di vaccini e governi, stima che il vaccino possa rappresentare il 43% di tutte le dosi che saranno disponibili nei paesi a basso e medio reddito.

Ma, in questo momento, i ricercatori di Oxford e AstraZeneca sono stati travolti da un torrente di domande che rischiano di oscurare quello che loro stessi considerano un vaccino estremamente efficace. Secondo Jesse L. Goodman, scienziato della Fda dal 2009 al 2014, i passi falsi di AstraZeneca rafforzano l’importanza di una comunicazione chiara e trasparente. “Le persone hanno bisogno di sapere cosa si sa e cosa non si sa in modo da potersi fidare dello studio”, ha detto al New York Times. AstraZeneca sta ora considerando una nuova sperimentazione globale che arruolerà diverse migliaia di partecipanti per raccogliere più dati sul regime che prevede una mezza dose iniziale. I dirigenti di AstraZeneca hanno dichiarato che, sulla base dei feedback ricevuti dalla Fda, non si aspettano di ricevere l’approvazione fino a quando la società non avrà ottenuto i risultati del suo studio negli Stati Uniti. Questo potrebbe accadere a gennaio. Nel frattempo c’è tanta voglia di trasparenza. “Visto che i vaccini contro Covid-19 hanno ricevuto finanziamenti pubblici sostanziosi, i governi possono, anzi, devono pretendere dalle aziende che i risultati delle sperimentazioni vengano pubblicati per intero su riviste scientifiche”, dice Garattini. “Bisogna porre fine a questa assurda gara a chi arriva prima al vaccino. Non ha senso. Arrivare per primi non rappresenta un vantaggio per l’azienda. Perché nessuna di queste aziende – continua – è al momento in grado di produrre e distribuire dosi sufficienti del vaccino. Considerato che è tutto il mondo ad aspettare il vaccino, le dosi di cui avremo bisogno sono tantissime. Troppe e non sarò solo un’azienda a poterle fornire. Alla fine avremo probabilmente più di un vaccino. Due, tre, quattro o addirittura dieci”.

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Un bambino di Milano di 4 anni aveva il coronavirus il 21 novembre 2019

(eikon)
Arrivato in pronto soccorso con problemi respiratori, era stato sottoposto a tampone in gola il 5 dicembre per vedere se aveva il morbillo. Oggi il suo campione è stato rianalizzato dai ricercatori dell'università di Milano e trovato positivo al Sars-Cov2. Il risultato pubblicato sul sito dei Cdc americani. Mario Raviglione: "Virus in circolazione già da metà novembre"
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Il 21 novembre 2019 a Milano un bambino di 4 anni che frequenta la scuola materna si ammala di tosse e raffreddore. Non è il solito malanno di stagione. Il 30 novembre arriva in pronto soccorso perché vomita e fatica a respirare. Il giorno dopo la pelle si riempie di bollicine e il 5 dicembre gli viene fatto un tampone in gola: il morbillo che i medici sospettano si rileva così. Ma non è quella la diagnosi giusta. In ogni modo il bambino guarisce e il cotton fioc, come è prassi, viene conservato nel freezer a meno 80 gradi nel laboratorio dell'università, che funge da sentinella nella rete Moronet per la diffusone del morbillo. Oggi, a quasi un anno di distanza, un gruppo di ricercatori dell'ateneo si chiede: e se fosse stato Covid?

Trentanove campioni vengono ripresi dal gelo, risalenti al periodo settembre 2019-febbraio 2020. Trentotto sono negativi, ma il tampone del bambino no. In quel cotton fioc, più di un anno fa, c'era già il coronavirus, ceppo di Wuhan. L'esame effettuato nel laboratorio dell'università di cui sono responsabili Elisabetta Tanzi e Antonella Amendola è lo stesso tampone molecolare che viene usato oggi per le diagnosi dei positivi. Nessun test è sicuro al 100 per cento, ma quello è il più preciso che abbiamo e rileva direttamente l'Rna del coronavirus, non (come nel caso degli esami del sangue) gli anticorpi che potrebbero reagire anche a contatto con virus simili.

"Ma non ci siamo fermati qui - raccontano Tanzi e Amendola - e per essere completamente sicuri che si trattasse di Sars-Cov2 abbiamo letto anche tutte le basi di una porzione del suo Rna, che corrisponde al cento per cento con quello di Wuhan". La ricerca, firmata anche dal preside di Medicina dell'università di Milano Gian Vincenzo Zuccotti, è stata pubblicata sulla rivista internazionale Emerging Infectious Diseases e sul sito dei Centers for Disease Control (Cdc) americani.
 
"Né verosimilmente può essere un caso di contaminazione di laboratorio" ragiona Mario Raviglione, anche lui autore dello studio, professore di Salute globale all'ateneo milanese e alla Queen Mary university of London. "Quel laboratorio è stato chiuso a marzo e non ha mai fatto analisi di tamponi Covid". In Francia, in modo simile, il tampone di un uomo raccolto il 27 dicembre era stato conservato e scoperto positivo mesi dopo. "L'esplosione che il coronavirus ha avuto in Nord Italia a fine febbraio - secondo Raviglione - è perfettamente compatibile con un'infezione già in circolazione da settimane o mesi".

L'analisi filogenetica dei virus sequenziati finora fa pensare a una comparsa di Sars-Cov2 a ottobre-novembre in Cina. A questo risultato si arriva disponendo tutte le sequenze dell'Rna dei coronavirus trovati nel tempo lungo un albero genealogico. Risalendo indietro lungo i rami, è possibile ricostruire anche le radici e stimare il momento della comparsa di un nuovo virus nell'uomo.

"Per avere i primi sintomi il 21 novembre - prosegue Raviglione - il bambino si è probabilmente contagiato 4 o 5 giorni prima. Né lui né la sua famiglia avevano viaggiato. Quindi il coronavirus era già presente in Nord Italia a metà novembre, confuso con i sintomi dell'influenza". L'Istituto superiore di sanità, con un'analisi di giugno coordinata da Giuseppina La Rosa, aveva trovato il genoma di Sars-Cov2 anche nei vecchi campioni delle acque reflue prelevate a Milano e Torino il 18 dicembre 2019 e a Bologna il 29 gennaio 2020. "L'idea ci è venuta proprio da quella notizia" spiegano Tanzi e Amendola. "Nell'acqua il virus è molto diluito. Per arrivare a essere rilevato, doveva essere presente già in quantità". Raviglione conclude: "Speriamo che altri laboratori - conclude Raviglione - abbiano adesso la stessa idea di riprendere i vecchi tamponi e testarli per il coronavirus. Potremmo così ricostruire una mappa più precisa dell'arrivo dell'infezione in Europa".

martedì 8 dicembre 2020

                                                                   OMINIDI DE FUTURO


“DOV'È IL PROSSIMO APPUNTAMENTO? RAGA', ME STANNO A DÌ CHE SE SPOSTA A VENERDÌ” – DOPO IL FAR WEST AL PINCIO, SU TIK TOK E TEELGRAM I PISCHELLI STANNO PREPARANDO NUOVE RISSE – “SAMUELE, PREPARATE, TE VENIMO A PRENDE CON I COLTELLI” – NEL MIRINO DEGLI INVESTIGATORI ANCHE IL RADUNO DI 3MILA GIOVANISSIMI ALL’EUR – UN AGENTE: “SIAMO TORNATI INDIETRO DI 20 ANNI” – PER IL PINCIO CAMBIANO LE REGOLE E LA ZONA DIVENTA SORVEGLIATA SPECIALE. CONTROLLI IN TUTTE LE PIAZZE DELLA CAPITALE – VIDEO

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Flaminia Savelli per “il Messaggero - Cronaca di Roma”

 

Hanno aperto nuovi gruppi Telegram per cavalcare l'onda e organizzare un altro appuntamento. Mentre nelle chat di Tik Tok e Tellonym- il canale affollatissimo di under 18 perché le conversazioni sono anonime- si confrontano su quanto accaduto tra il Pincio e piazza del Popolo. Così la rete delle piattaforme social è incandescente. E lo è da giorni.

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C'è infatti un precedente, una spia rossa che si era già accesa: ancora un sabato pomeriggio, ancora al Pincio. Quando tra le 17 e le 17.30 del 28 novembre un folto gruppo di ragazzi era stato notato dagli agenti antisommossa, schierati in servizio di controllo. In quel caso però, nessuna miccia si è accesa tra i tanti ragazzi che affollavano la terrazza. Alla vista delle uniformi blu, si sono allontanati senza protestare.

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Ma alla luce di quanto avvenuto poi, il sospetto è che anche quell'incontro fosse stato stabilito. L'episodio non era passato inosservato perché gli agenti, mentre disperdevano i ragazzi, hanno notato che ne arrivavano altri.

 

LE CHAT

L'ipotesi ora, è che forse anche dietro quell'appuntamento pomeridiano si sia mossa l'onda della rete reclutando giovanissimi nel cuore della città. Un fenomeno, una nuova moda, che potrebbe replicarsi. «Raga', me stanno a dì che se sposta a venerdì» è il messaggio lasciato nella chat Telegram, attivata domenica.

 

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Gli iscritti postano le immagini caricate il giorno precedente e che hanno fatto il giro del web. Una pagina, intercettata già dagli investigatori incaricati di verificare se si tratti di un canale fake. Eppure nella conversazione qualcuno rilancia: «Samuele- si legge- preparate, te venimo a prende con i coltelli». Ancora, nella lista Telegram, con una semplice ricerca compare Risse a Roma.

 

Appena una manciata di partecipanti che invitano però a postare video e foto di scontri in giro per la Capitale. Un'altra luce che si accende nel mondo virtuale degli adolescenti. Con la notizia di un nuovo maxi raduno che sta attraversando la rete. Anche su Tellonym, le domande rimbalzano da un profilo all'altro: «Dov' è il prossimo appuntamento?», «Tu ci vieni?», e ancora: «Quando ci rivediamo?». Così come i messaggi e video su Tik Tok.

 

L'APPUNTAMENTO

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Ma c'è un altro punto d'incontro sabato diventato caldissimo nella Capitale. Mentre al Pincio la tensione tra i gruppi di diverse compagnie degenerava in rissa, all'Eur si sono dati appuntamento in 3mila. Anche in questo caso, sostengono polizia e carabinieri di zona, l'uscita prima virtuale si è trasferita nelle strade e nelle piazze del quartiere. I gruppi di giovani e giovanissimi si sono divisi tra viale Europa, quindi il ritrovo sulla scalinata della Basilica santi Pietro e Paolo.

 

E infine hanno occupato la piazza intorno all'Obelisco. «Siamo tornati indietro di 20 anni» commentano gli agenti. Infatti proprio in quella piazza- tra la fine degli anni 90 e i primi del 2000- si radunavano centinaia di ragazzi con le loro auto modificate, pronti a sfrecciare lungo i rettilinei del quartiere. Una moda pure in quel caso, raccontata nel film di Daniele Vicari con Valerio Mastandrea, Velocità massima. Sabato invece, i 500 che si sono ritrovati lì si sono limitati a chiacchiere e schiamazzi con gli amici: senza però rispettare le norme anticontagio.

 

2 – PESTAGGIO AL PINCIO

Camilla Mozzetti e Flaminia Savelli per “il Messaggero - Cronaca di Roma”

 

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Non più terreno franco e aperto a potenziali nuove scorribande e accapigliamenti. Dopo quanto accaduto sabato sera con una maxi-rissa che ha visto il coinvolgimento di almeno 200 ragazzi tra chi tecnicamente è venuto alle mani e chi ha assistito come mero spettatore, per il Pincio cambiano le regole e la zona diventa sorvegliata speciale.

 

 Se ne è discusso ieri pomeriggio quando in sede di Comitato per l'ordine e la sicurezza, convocato in remoto dalla Prefettura, si è deciso alla fine di integrare il piano dei controlli disposto dal Prefetto e messo a punto dalla Questura per gestire gli afflussi in Centro nel fine settimana anche se le verifiche sul Pincio non rientreranno in quelle anti-Covid ma saranno trattate come un capitolo a parte. Dunque, oltre alle misure già in atto, sul Pincio l'attenzione aumenterà: in campo gli agenti di polizia e i militari dei carabinieri al fine di evitare nuovi episodi di violenza tra i giovanissimi.

 

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Ma non solo. Un'attenzione particolare sarà rivolta anche a quelle piazze di periferia o comunque lontane dal centro storico che fungono ugualmente da ritrovo per i ragazzi. L'invito è quello di intensificare, grazie ai controlli sul territorio delle Volanti, le verifiche anche a ridosso di piazza dei Mirti a Centocelle ma anche piazza Caprera al quartiere Trieste ad esempio fino al Colosseo Quadrato e sul litorale di Ostia.

 

L'episodio avvenuto sabato ha fatto scattare un campanello d'allarme finora sottaciuto: proprio i ragazzi, complice l'assenza di altri svaghi, stanno riempiendo maggiormente i luoghi pubblici e il trend che emerge anche dai social - video di TikTok in primis - è che gli appuntamenti siano mirati a far casino. I carabinieri della compagnia Roma Centro intanto stanno acquisendo sommariamente le prime testimonianze di giovani che, a vario titolo, sabato pomeriggio si trovavano al Pincio.

 

Resta ancora da chiarire con esattezza se le diverse compagnie si siano ritrovata lì, proprio per l'annuncio di un regolamento di conti tra due giovanissime annunciato sempre via social e che sarebbe stato usato come aggregatore ma che poi alla fine non si è tenuto.

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Di certo i gruppi che poi sono venuti alle mani vedono come protagonisti due giovani residenti nella zona di Cinecittà che almeno un paio di mesi fa si erano picchiati sempre in strada. Uno dei due, un 14enne identificato dai carabinieri, è rimasto ferito: 30 giorni di prognosi per la frattura del setto nasale. Anche a fronte di ciò in Procura scatterà quasi certamente una doppia inchiesta con l'apertura di un fascicolo per rissa contro ignoti.

 

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FONTI APERTE

Nelle mani degli investigatori ci sono anche decine di video, audio e chat. A cui si sommano le immagini, subito sequestrate, delle telecamere di video sorveglianza della metro Flaminio. Anche lì, un gruppetto è stato ripreso mentre si picchiava. Un lavoro lungo, un'indagine complessa per i carabinieri. Perché le Fonti aperte, cioè le tracce lasciate nella rete da chi c'era e da chi ha solo condiviso i contenuti, sono tantissime. Ma i militari hanno richiesto anche l'accesso ai tabulati. Una pista per risalire ai telefonini (quindi alle utenze) agganciati, sabato pomeriggio tra le 17 e le 18, alla cella telefonica tra Piazza del Popolo e il Pincio.

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martedì 1 dicembre 2020

Ospedali San Paolo e Carlo, parla un medico: ‘Inumano, noi e i pazienti abbandonati in una vera bolgia, ammassati come carne da macello’ Ospedali San Paolo e Carlo, parla un medico: ‘Inumano, noi e i pazienti abbandonati in una vera bolgia, ammassati come carne da macello’ Non ha firmato la lettera-denuncia dei colleghi "perché non c'ero, ma lo rifarei oggi stesso perché lo confermo punto per punto". Tra i corridoi degli ospedali milanesi, dove è deflagrato il caso della lettera di 50 medici sulle prestazioni dilazionate per mancanza di personale, subito sconfessata dalla direzione, c'è un clima di terrore. Specie dopo il siluramento del primario che aveva scritto le stesse cose alla direzione generale un mese prima. Qualcuno rompe il silenzio, ma dietro garanzia di anonimato. E racconta cosa succedeva nei reparti di emergenza-urgenza al collasso di Thomas Mackinson | 23 NOVEMBRE 2020 Milano, il grido dei medici del San Paolo e del San Carlo costretti a decidere chi salvare: “Le carenze erano ben note, ora ci troviamo a fare intollerabili scelte sull’accesso alle cure” Milano, il grido dei medici del San Paolo e del San Carlo costretti a decidere chi salvare: “Le carenze erano ben note, ora ci troviamo a fare intollerabili scelte sull’accesso alle cure” Milano, indagini al San Carlo e al San Paolo dopo la lettera-denuncia di 50 medici. La direzione si difende, i dottori temono rappresaglie. E il caso diventa politico Milano, indagini al San Carlo e al San Paolo dopo la lettera-denuncia di 50 medici. La direzione si difende, i dottori temono rappresaglie. E il caso diventa politico Covid, sul tavolo del ministero della Salute il caso dei reparti d’urgenza degli ospedali Santi Paolo e Carlo di Milano. La Regione? Voleva dirottare 13 sanitari alla Fiera Covid, sul tavolo del ministero della Salute il caso dei reparti d’urgenza degli ospedali Santi Paolo e Carlo di Milano. La Regione? Voleva dirottare 13 sanitari alla Fiera Denunce, siluramenti, veleni: l’allarme dei 50 medici costretti a decidere chi salvare dal Covid diventa una faida interna agli ospedali San Paolo e Carlo di Milano Denunce, siluramenti, veleni: l’allarme dei 50 medici costretti a decidere chi salvare dal Covid diventa una faida interna agli ospedali San Paolo e Carlo di Milano “Vuole che lo dica bene? Se prendo una pianta che ho scordato di annaffiare e la annego, quando ormai è quasi morta, il risultato è che la pianta muore”. Il clima da caccia alle streghe dentro gli ospedali San Paolo e Carlo di Milano impone l’anonimato al personale sanitario che lavora nei reparti d’urgenza, che 50 colleghi medici e rianimatori hanno definiti al collasso, con 350 posti letto già occupati, le barelle che si trasformano in letti e le sale di attesa in reparti, coi medici costretti “a fare scelte né clinicamente né eticamente tollerabili” e forzati a dilazionare l’accesso a terapie e tecniche. L’Asst si è mossa per sconfessare quella denuncia, arrivando a rimuovere la primaria che l’aveva anche anticipata, in termini non meno diretti, al direttore meno di un mese prima che i colleghi prendessero l’iniziativa, convinti di doverlo fare a tutela dei loro pazienti e di se stessi. Lei che opera in quei reparti, conferma o smentisce quanto riportato nella lettera? Lo confermo punto per punto. Io non l’ho firmata perché non c’ero in quei giorni, ma lo farei oggi stesso, perché quello che ho letto sul vostro giornale, che l’ha riportata, è né più né meno di quanto accade. Nonostante la mancanza di risorse fosse nota a tutti da tempo, ci siamo trovati di fronte a scelte eticamente difficili verso i nostri pazienti. Lavorare in quella bolgia in questo momento è difficilissimo, inumano. Siamo tutti ammassati come carne da macello. E vale per i pazienti come per i medici, gli infermieri e le OSS. Lavoriamo in condizioni che un dispensario del Ruanda è meglio. Nello specifico, a lei è successo? Più volte, purtroppo. Mi sono trovato che non avevo a disposizione un’anestesista per una sedazione per un paziente particolarmente compromesso che necessitava di una cura particolarmente invasiva. Poi il collega si è reso disponibile, ma dopo due ore e mezza. Ma quella circostanza l’ha riportata nella cartella del paziente? Ma certo che no. Non si scrivono in cartella queste cose. Le cartelle sono documenti clinici. Non sono mezzi di difesa personale o “ mezzi legali di rivalsa”. Nella cartella scrivi asetticamente quel che riscontri, senza orpelli aggiuntivi di qualsiasi natura, neppure di contesto. Non puoi certo scrivere che siccome non hai un anestesista hai evitato di trattare un paziente quando ne aveva bisogno, ma lo hai fatto appena il collega che era sul paziente a fianco si è reso disponibile. Piuttosto non scrivi nulla, sarebbe come suicidarsi. E perché succede? Perché se emergesse mai una discrepanza tra peggioramento del paziente e applicazione della metodica, la responsabilità sarebbe solo ed esclusivamente individuale del medico poco attento alle condizioni del paziente. Sarebbe lui a rispondere di colpa grave per negligenza, imperizia e imprudenza. Neppure l’assicurazione personale (che paghiamo tutti noi di tasca nostra) interverrebbe a risarcire il danno. Vai poi a dimostrare che questo è successo a causa delle carenze strutturali e delle particolari condizioni in cui si operava in quel momento. E dunque: dalla verifica interna annunciata dalla direzione su tutte le cartelle del Pronto Soccorso e dell’urgenza cosa potrà emergere? Nella verifica di quelle cartelle non troveranno nulla ed è un’ovvietà. Ma così potranno dire che nulla è successo. E quindi bollare i medici che quella condizione hanno segnalato di essere degli agitatori, degli invasati. E magari rivalersi un giorno su di loro. Ci spiega esattamente il problema? Tecnicamente si chiama “timing”. Significa che in medicina fare la cosa giusta nel tempo sbagliato equivale a fare quella sbagliata. Punto. I colleghi, e questo le persone lo devono capire bene, non hanno detto che non hanno curato i pazienti, ma che si sono trovati a dilazionare le prestazioni per mancanza di personale. Quando una persona va intubata va fatto subito. Quell’intervento veniva poi fatto appena possibile, ma dilazionato. Ricorda il discorso della pianta? Ma alla radice di tutto questo cosa c’è? Le risorse di personale che mancano. Mancavano da anni, sono mancate anche nell’emergenza. Ho letto il comunicato dell’Asst che parla di 97 medici assunti e 94 infermieri da febbraio. Quello che non si dice è che la maggior parte di quelle posizioni è andata a integrare i pensionamenti, e che molti contratti attivati erano a termine e a settembre sono cessati. Quando è arrivata la seconda ondata ci siamo ritrovati ancora più in sofferenza di prima, in tutti i reparti. Poi hanno tentato di tamponare con i neolaureati che il giovedì sono usciti dall’università il giovedì e il sabato sono stati sbattuti in pronto soccorso Covid. Senza una formazione specifica degna di questo nome che consentisse loro di muoversi agilmente in corsia. E quale è stato il risultato? Che erano più d’impiccio che altro perché questi giovani colleghi rallentavano l’attività in un contesto dove il minuto fa la differenza. Capiamoci, non per colpa di questi ragazzi che hanno l’ardore dei vent’anni che ti porta a voler salvare il mondo, e io posso dirlo hanno dato tutto, non si sono mai risparmiati. Il problema è che la direzione ha sottovalutato l’impatto di una seconda ondata ben sapendo che già alla prima eravamo in enormi difficoltà. E poi ci sono le strutture in cui ci siamo trovati a operare, a dir poco di fortuna. In che senso? E’ verissimo quanto scritto nella lettera: la mancata pianificazione di aree attrezzate per la seconda ondata ha fatto sì che si usassero spazi diversi da quelli idonei per visitare, trattare e monitorare i pazienti. Perfino le sale d’attesa. Ora, dico io da cittadino lombardo che paga le tasse: se mi capitasse un qualche accidente, posso dire che non voglio essere intubato, anche se siamo in una pandemia, in mezzo al corridoio? A pagare per ora è stata la primaria d’urgenza, rimossa notte tempo nonostante avesse segnalato alla direzione un mese prima il collasso dei reparti Guardi le posso dire che Francesca Cortellaro è solo il primo capro espiatorio. Non ora, perché i riflettori dei giornali sono puntati lì, ma presto i 50 colleghi che hanno firmato la lettera pagheranno un prezzo, in termini di carriera, di conferma etc. Ma la responsabilità del collasso è della primaria rimossa? Macché, si era spesa in prima persona perché la direzione reclutasse il personale necessario a sostenere l’urto dei coronavirus, nella prima e nella seconda ondata. La Cortellaro viene sacrificata per dare un segnale a tutto il personale. Ma è una di quelle che alle 7:30 era lì e alle otto di sera era ancora lì. Se salta un turno per qualsiasi motivo e c’è un turno scoperto lo fa lei, notti incluse. E’ una di quelle che s’è presa il Covid lì dentro, e appena ha potuto è rientrata a lavorare. Incarna quello spirito di abnegazione che è valsa a tutti noi la patente di “eroi” sui giornali. Che tutti i giorni vengono mandati al macello. Perché la primaria ha pubblicamente sconfessato i cinquanta colleghi? Non lo so. In un primo momento forse ha ritenuto di fare quadrato attorno alla struttura e dunque alla direzione. Anche questo è abnegazione, ma non posso perdonarle il fatto che nel far questo ha esposto 50 colleghi al rischio di rappresaglie da parte della direzione. La sua condotta su questo è stata indicibile. Di cosa avete paura? Prima la paura era il Covid e di non riuscire a fare tutto quel che è necessario per i pazienti. Ora che questa vicenda è esplosa temiamo tutti di finire stritolati in una guerra interna che fa scivolare i problemi sullo sfondo perché le energie sono concentrate sul regolamento di conti contro chi ha segnalato la situazione. Ai colleghi che hanno firmato mi viene da dire che è stato un errore, in questo frangente, non coinvolgere i sindacati. Ma è anche vero che le denunce degli anni passati fatte anche tramite loro non sono bastate. Qui il grande assente è Regione Lombardia, perché il direttore generale ha certo le sue responsabilità, ma ce ne sono anche a livello più alto. Cosa intende? Tutti, a partire dalla direzione sanitaria, dalla stessa Cortellaro, dicono “succede in ogni ospedale”. Ma questo è il problema, si fa sempre conto sulla buona volontà e lo spirito di sacrificio degli operatori sanitari che ci sono dentro. In Lombardia, fuori di qui, crede che si sia lavorato per aiutarci? Mi riferisco alle delibere di Gallera e Fontana che in estate hanno dato per passata l’emergenza facendoci ripiombare in una situazione più grave in autunno. Quale in particolare? Ad esempio quella che alla fine della prima ondata ha riformulato gli obiettivi delle iso-risorse. In pratica attribuiva ai dirigenti un premio di risultato del 25% qualora fossero riusciti a recuperare almeno il 95% delle prestazioni ambulatoriali del 2019. L’obiettivo era recuperare l’arretrato delle prestazioni ordinarie, ma di fatto è stato un incentivo a smantellare i reparti Covid. E questo lo abbiamo pagato nella seconda ondata, quando nei reparti d’urgenza finiva di tutto perché quelli Covid della prima ondata non c’erano già più. Per non parlare dei materiali protettivi che ci ha visto nudi davanti al Covid. In che senso? Sa che qui ci sono stati 300 contagi tra il personale sanitario e amministrativo? Sa che dovevano farci i tamponi e non c’erano? Noi ci contendevamo anche le mascherine e i guanti. Tutti a chiedersi perché. Poi salta fuori che a fine maggio una delibera della giunta regionale ha aumentato gli incentivi economici ai direttori generali che riducevano le scorte di magazzino, compresi i reagenti che servivano per fare i tamponi. E’ questo che fa rabbia, questo trovarsi nudi e soli davanti al Covid che vale per i medici come per i pazienti. Mentre politici e dirigenza sanitaria, lontani dall’inferno, giocano a fare Dio e distribuiscono ricchi premi.