domenica 28 aprile 2019

‘Ndrangheta Emilia. Vendette e faide, il pentito sugli omicidi del 1992: “Si doveva togliere il male da Cutro e Reggio Emilia”

‘Ndrangheta Emilia. Vendette e faide, il pentito sugli omicidi del 1992: “Si doveva togliere il male da Cutro e Reggio Emilia”

Il collaboratore di giustizia Antonio Valerio venerdì 26 aprile ha deposto per ore nell’aula della Corte d’Assise di Reggio Emilia. Con le sue dichiarazioni al processo Aemilia ha spinto la Direzione Antimafia a riaprire il fascicolo sulla stagione in cui la ‘ndrangheta “marchiò a fuoco, col sangue, la provincia, prima di far calare il silenzio”
“C’era bisogno di un’azione forte, dirompente, per togliere il male definitivamente da Cutro e da Reggio Emilia”. Parola del collaboratore di giustizia Antonio Valerio, che venerdì 26 aprile ha deposto per ore nell’aula della Corte d’Assise di Reggio Emilia. Il male era rappresentato dalle famiglie Vasapollo e Ruggiero che avevano osato sfidare i potenti boss crotonesi: Ciampà, Dragone, Arena e Grande Aracri, andando ad uccidere giù a Cutro il 13 agosto 1992 un protetto dei Ciampà: Paolino Lagrotteria. L’azione forte e dirompente fu il fuoco mortale di risposta che segnò Reggio Emilia nei mesi successivi di settembre e di ottobre: gli omicidi di Nicola Vasapollo a mezzogiorno del 21 settembre alla periferia della città e di Giuseppe Ruggiero, colpito a notte fonda il 22 ottobre nel comune di Brescello. Entrambi uccisi dietro le mura di casa e da commando a volto scoperto.
Finta paletta dei Carabinieri usata per l’omicidio di Brescello
Valerio è il pentito che con le sue dichiarazioni al processo Aemilia ha spinto la Direzione Antimafia a riaprire il fascicolo sulla stagione in cui la ‘ndrangheta “marchiò a fuoco, col sangue, la provincia di Reggio Emilia, prima di far calare il silenzio”. Sei nuovi imputati per i due omicidi del ’92: due già condannati in abbreviato (lo stesso Valerio e Nicolino Sarcone), quattro alla sbarra nel processo di primo grado in Corte d’Assise. Il primo è il capo della omonima cosca Nicolino Grande Aracri detto Mano di gomma, che ascolta la deposizione di Valerio in videoconferenza dal carcere di Opera, a Milano, tradendo molto nervosismo ed entrando in continuazione nella cabina telefonica a sua disposizione dove si sbraccia e pare replicare concitato, presumibilmente con i propri avvocati, alle dichiarazioni di Valerio. Gli altri sono Angelo Grecodetto Linuzzo, nato a San Mauro Marchesato e recluso a Torino; Antonio Lerose detto Il bel René, nato a Cutro e residente a Bologna, Antonio Ciampà detto Coniglio, nato e ancora domiciliato a Cutro.

Di tutti loro Valerio nelle ultime due udienze racconta dettagli, movimenti, dichiarazioni, incastrandoli alle responsabilità, vuoi come mandanti, vuoi come esecutori, di quei due omicidi che rappresentarono la risposta “eclatante” delle famiglie alleate nei confronti dei traditori.
Paolino Lagrotteria era stato ucciso a Cutro nonostante fosse un protetto dei Ciampà. Era stato ucciso per vendetta perché 13 anni prima era scappato lasciando morire tra le fiamme, in un locale notturno a Reggio Emilia, l’amico Giuseppe Vasapollo col quale, per intimidire i proprietari, aveva appiccato il fuoco che li aveva poi avvolti durante la fuga.
Finta auto dei Carabinieri usata per l’omicidio di Brescello
Per vendetta le famiglie alleate che governavano Cutro uccideranno Vasapollo e Ruggiero nel 1992 a Reggio Emilia. Per vendetta Paolo Bellini, killer al soldo dei Vasapollo e responsabile della morte di Lagrotteria, il 7 novembre dello stesso anno ucciderà a Viadana Domenico Scida, considerato uomo dei Dragone, e il testimone scomodo Maurizio Puca. Per vendetta lo stesso Bellini getterà una bomba nel bar Pendolino alla periferia di Reggio Emilia il 22 dicembre del 1998 lasciando tredici feriti tra le macerie, e tenterà di uccidere Antonio Valerio sotto casa nel 1999. Lo centra con più proiettili ma nessuna ferita è mortale, sennò Valerio non riuscirebbe oggi a raccontare quella lunga guerra di mafia avvenuta senza esclusione di colpi.

C’era già stato un processo, per gli stessi delitti del ’92, che aveva condannato definitivamente Raffaele Dragone e Domenico Lucente (poi suicida in carcere) all’ergastolo. Un altro degli assassini che sparò materialmente a Vasapollo, Antonio Macrì detto Topino, venne in seguito ucciso in un garage di Cutro e poi seppellito sotto 17 metri di terra perché il corpo non venisse mai ritrovato.
Giuseppe Ruggero
Ma il processo di oggi in Corte d’Assise completa il quadro delle responsabilità che secondo il PM della Direzione Antimafia Beatrice Ronchi determinarono quelle morti e rafforza la sensazione di una comunità perlomeno distratta, quella locale, e incapace di comprendere la portata degli eventi.
Dice Valerio nell’udienza del 26 aprile che la pianificazione di entrambi i delitti avvenne in tante riunioni che si svolgevano a casa sua, in via Samoggia a Reggio, dove c’era un via vai di mafiosi impressionante e dove si commerciava droga e si scambiavano armi senza che avvenisse mai un controllo, nonostante Valerio fosse agli arresti domiciliari. “Potevo fare quello che volevo e andare dove volevo”.

Tanto che fece parte del commando partito di notte per Brescello. Lui era alla guida della finta auto dei Carabinieri, con mafiosi travestiti da Carabinieri, che arrivò sotto casa di Ruggiero con il lampeggiante acceso, alle tre di notte, a solo cento metri dalla locale caserma dei Carabinieri. Antonio Le Rose scese con la mitraglietta a fare da piantone. Aldo Carvelli (secondo Valerio) e Lino Greco bussarono alla porta dicendo alla moglie di Giuseppe: “Controllo, faccia scendere suo marito” e quando arrivò partirono i colpi di pistola. Poi Valerio telefonò a casa alla propria compagna per sapere di eventuali visite delle forze dell’ordine e lei lo tranquillizzò: “Non s’è visto nessuno”. Era un uomo agli arresti domiciliari, ma con licenza di uccidere.
Antonio Ciampa
La morte di Giuseppe Ruggiero comunque era già stata pianificata da tempo e per Valerio c’era pure un movente personale che veniva prima della vendetta per l’omicidio Lagrotteria. Lui doveva vendicare l’uccisione del padre a Cutro per mano del cugino di Giuseppe, Rosario Ruggiero detto Tre dita. Nell’estate del 1991, latitante e sotto il falso nome di Ruberto Vincenzo, Antonio Valerio si trova sulla costa romagnola a Lido di Saviodove lo raggiungono Paolo Lentini detto Pistola, Lino Greco e Nicolino Grande Aracri: “Vennero già con le armi, con l’intento di uccidere Giuseppe Ruggiero abitante in Brescello”, dice Valerio. Arrivarono con una Lancia Thema e partirono in direzione Reggio Emilia a bordo di una Mercedes bianca targata Ravenna. Partirono con in tasca le armi corte, semiautomatiche e a tamburo, necessarie per l’omicidio, e con alcune calze velate che sarebbero dovute servire per nascondere il volto. Al volante della Mercedes è Nicolino Grande Aracri che corre in autostrada come un fulmine e guida spericolato.
Ai funerali di Giuseppe Ruggiero partecipa Francesco Grande Aracri (al centro). Fratello di Nicolino Grande Aracri, mandante dell’omicidio.
Arrivato a Brescello, il commando si mette in moto verso la casa di Giuseppe Ruggiero: Paolo Pistola e Linuzzo a piedi davanti, Nicolino Grande Aracri alla guida dell’auto e Valerio dietro in copertura. Arrivano vicino alla casa di Ruggiero e dal cancello esce Salvatore detto Turuzzo, fratello di Giuseppe, “la mente economica dei Ruggiero”. Giuseppe resta invece nel cortile a giocare con i ragazzi, i suoi tre figli. Il racconto di Valerio ai pm, durante gli interrogatori del 2017, fissa nella storia alcuni dettagli di quegli istanti: “E’ venuto in avanti il fratello e nel mentre arrivo pure io. Turuzzo praticamente era uscito fuori, avrà nasato… e loro (Pistola e Linuzzo) hanno fatto il passo di tornare indietro. Ci siamo guardati. Gli ho fatto segno con la testa: sì, mi ha visto. Va bene anche lui. Mentre l’altro obbiettivo nostro era all’interno che giocava con i ragazzi… Entriamo dentro! L’uno o l’altro, o tutti e due, quale migliore occasione? … Niente! Non hanno deciso di partire. Non si è fatta l’azione, si è abortito tutto quanto”.

Il primo tentativo si chiude così, stando al racconto del collaboratore di giustizia, col rientro a Lido di Savio senza colpo ferire e con Valerio che accompagna Nicolino e gli altri in stazione per tornare in Calabria. Si torna in scena un anno dopo, quando la rappresentazione non si interrompe e giunge fino all’ultimo atto: la morte di Vasapollo e Ruggiero. Il primo raggiunto dai proiettili alla testa, al cuore e al torace; il secondo che morirà per shock emorragico causato da cinque colpi all’addome e al torace. Si torna in aula, con il controinterrogatorio di Valerio, il 10 maggio alle ore 9.

venerdì 26 aprile 2019

Intervista. Raggi: Roma non può essere un campo di battaglia. Salvini stia con me



giovedì 25 aprile 2019
La sindaca: accoglienza è una parola bella, la capitale è aperta, generosa e antifascista. Con la Lega differenze profonde, ma se la bussola è il programma il governo va avanti
Virginia Raggi (Ansa)
Virginia Raggi (Ansa)
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È un confronto su Roma e sull’Italia. Virginia Raggi a tratti dà l’impressione (o forse vuole solo darla) di essere davvero una persona normale. Non il sindaco più "social" del mondo, non il primo cittadino della capitale d’Italia sostenuto da un milione di follower. «Roma è potere. Un potere che abbaglia, che seduce, che piega. A me questa parte non piace. Io non amo le cene di gala e non mi vedo sulle copertine a colori dei magazine». Raggi parla di Roma con passione. «È tanto tutto insieme. È attrattiva. È una calamita, è il centro del mondo. E poi è ribelle, è coraggiosa, è solidale...». Quell’ultima parola ci trascina su una data: 25 aprile. La sindaca la declina a modo suo. Spiegando che Roma sarà con sempre gli ultimi e mai con i prepotenti. Che sarà con chi resta indietro. Sarà con le periferie piegate e arrabbiate. «Roma è orgogliosamente antifascista. E per me essere antifascista significa rimettere al centro l’uomo. Qualsiasi uomo. E significa trovare soluzioni a problemi complessi come quello delle periferie dove gruppi come CasaPound e Forza Nuova ingannano le persone con false promesse. Noi in quelle periferie apriamo asili e scuole. Qualcuno le incendia e le allaga. Noi le ricostruiamo».
Virginia Raggi con la fascia tricolore (Lapresse)
Virginia Raggi con la fascia tricolore (Lapresse)
«Roma voglio raccontarla con due parole: accoglienza e legalità. Voglio una città aperta. Generosa. Tollerante. Capace di declinare parole come integrazione e solidarietà. Ma anche una città inflessibile con la criminalità. Decisa a sfidare usura. Azzardo. Abusivismo. E a dire basta ai piccoli e grandi privilegi dei clan. Degli Spada a Ostia, dei Casamonica a Roma Est». Virginia Raggi ci trascina indietro all’alba del 21 novembre 2018. «Lasciai il Campidoglio alle 3 e 30 della mattina. Direzione Quadraro. Guardavo Roma di notte. Bella e triste. E pensavo: perché la politica è stata così tanti anni ostaggio della criminalità? Perché ha preferito quasi sempre girarsi dall’altra parte e molto spesso farci affari?». Sei ore dopo le ruspe abbattevano otto villette del clan Casamonica. «Non è stata solo una scelta simbolica. È stata una spallata al muro di omertà. Lo Stato finalmente ha detto "qui ci sono io" e i cittadini hanno capito. E, insieme a noi, hanno detto "basta Mafia capitale, basta connivenze tra la politica e un sistema malavitoso». C’è una domanda inevitabile: lei ha paura? La sindaca di Roma risponde senza pensare: «No, non ho paura. E invito i cittadini romani a non averne. Da soli non possiamo fare da argine, ma se lo Stato c’è i cittadini trovano coraggio». Parola dopo parola comincia a prendere forma la sagoma del destinatario di quei messaggi: Matteo Salvini, il ministro dell’Interno del governo giallo-verde. «È suo dovere stare al fianco di ogni sindaco nelle battaglie per la legalità».
Più volte l’attualità politica sembra imporsi. E più volte Virginia Raggi prova ad allontanare la lente dal caos politico che scuote il governo giallo-verde per fermarsi sulle potenzialità della Capitale. Per raccontare le luci che «cominciano ad accendersi» e le ombre che «cominciano a dileguarsi». La sindaca parla scandendo le parole e, a tratti, si coglie l’accento romano. Siamo in un piccolo salone affrescato in Campidoglio. Dalle finestre si vede la grandezza di una Capitale che ancora va piano. Sfidiamo Raggi con una domanda facile: è davvero impossibile governare Roma? «No, se la ami. E io la amo. È la città nella quale sono nata. Qui sono cresciuta. Qui sta crescendo mio figlio. Roma è una città complessa e bellissima. Ma per anni è stata abbandonata, saccheggiata, sfregiata. In Campidoglio ancora si vedono i segni delle sigarette spente sul pavimento». Parliamo per settanta minuti. Di programmi e di progetti. Dei rifiuti e dello stadio, della legalità e della corruzione. Dell’immigrazione e dei rom. E del 25 aprile e del suo significato.
Partiamo dalle ultime parole del ministro dell’Interno: dice che i debiti della Raggi non saranno pagati da tutti gli italiani ma restano in carico a lei...
I romani però hanno capito. Persino la politica ha capito e il Parlamento metterà a posto le cose. Resta però un retrogusto amaro: non c’è nessun "Salva Roma". Semmai c’è un "Salva Italia". Lo Stato non mette un euro in più, ma può e deve rinegoziare il mutuo con le banche e così garantire risparmi per 2,5 miliardi di interessi a tutti gli italiani. Io farei la stessa cosa per pagare il mutuo di casa mia. Voi fareste la stessa cosa. Gli italiani farebbero la stessa cosa.
Insisto perché la gente vuole capire: quei 13 miliardi sono debiti di Virginia Raggi?
No, sono debiti di chi ha governato fino al 2008. Sono dei vecchi partiti che spolpavano la Capitale. Non di Virginia Raggi. Non della giunta M5s. Io ho tenuto i conti del Comune in ordine e ho anche pagato 250 milioni di nuovi "buffi" fatti da Alemanno e Marino. Ma ora basta. Ora vorrei davvero voltare pagina. Vorrei davvero che Roma smettesse di essere un campo di battaglia. E vorrei dire a Salvini, ministro dell’Interno: facciamo squadra per vincere l’illegalità. È questa la sua missione.
Da dove si parte?
Si parte cambiando un modo di pensare. Niente più scorciatoie. Niente più favori. Niente più zone grigie tra affari e politica. Sa perché ci sono quei 13 miliardi sulle spalle di Roma? Perché non c’era un appalto che veniva assegnato con una gara e perché dietro ogni appalto c’era una tangente, un malaffare. La nostra linea è tempi più lunghi ma trasparenza totale. Poi occorrono norme più snelle: non possiamo lasciare i romani in ostaggio delle infinite burocrazie.
Cosa direbbe a Marcello De Vito se ora lo avesse davanti a lei? E che direbbe ai romani che hanno creduto nel Movimento e lo hanno visto barcollare come i vecchi partiti?<+TONDO50>
De Vito ci ha ingannati e questo non glielo posso perdonare. Umanamente ho provato dolore. Le foto dell’arresto mi hanno fatto male: nessuno merita la gogna mediatica. Ho pensato molto anche alla sua famiglia, ma, politicamente, De Vito ha fatto male al Movimento e il Movimento ha chiuso qualsiasi rapporto con De Vito.
Ma lo stadio si farà? O il fantasma della corruzione rischia ancora di comprometterne la realizzazione?
Lo stadio si farà e sarà una opportunità per Roma. Ci sono 800 milioni di investimenti privati e c’è un patto che verrà rispettato: prima saranno realizzate le opere per la comunità, poi toccherà allo stadio. Il percorso è segnato, i tempi decisi, l’iter amministrativo va avanti senza rallentamenti. Ma voglio che tutto sia fatto a regola d’arte e ho avviato una analisi ulteriore affidata al Politecnico di Torino: non era dovuta, ma l’ho fatta per dare maggiori garanzie ai miei cittadini. La corruzione? Ha provato ad infiltrarsi ma è stata respinta. Altri attacchi arriveranno, ma oggi abbiamo sviluppato gli anticorpi e siamo pronti ad alzare il muro. Seguiremo alla lettera le procedure. Guarderemo con la lente ogni gara, ogni appalto, ogni ditta. Solo così potremmo azzerare i rischi. E alla fine ce la faremo.
Crede che il governo gialloverde sia davvero al capolinea?
Credo che il governo si regge su un programma. Per noi quel programma resta la stella polare. Poi restano le sensibilità diverse. Alcune differenze sono nette. Profonde. Ma se è il programma a guidare le scelte, il governo va avanti.
I rom sono un problema?
Roma è di tutti. È questo essere davvero "città aperta" che la rende speciale. Con i rom abbiamo lanciato la nostra "terza via": abbiamo allontanato chi, magari con una Porsche parcheggiata davanti al campo nomadi, faceva finta di essere indigente; ma allo stesso tempo abbiamo offerto sostegno a chi era fragile e magari era ricattato proprio dai ricchi capi del campo. Abbiamo chiuso un campo nella periferia nord di Roma dando la possibilità ai bambini di andare a scuola. E a chi voleva di tornare nei Paesi da dove era venuto. Piccoli segni, ma la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e l’Unione Europea hanno apprezzato il nostro lavoro.
Ma i campi rom verranno superati? E con quale progetto?
A breve interverremo su altri due campi nomadi. Manderemo via i delinquenti e offriremo la possibilità di rifarsi una vita a chi si attiene alle regole della nostra società: lavori, paghi le tasse come tutti gli altri e, soprattutto, mandi i tuoi figli a scuola.
Un cancro mina le periferie di Roma: si chiama gioco d’azzardo.
Sì, un cancro che va abbattuto completamente. Servono i soldi? Bisogna fare cassa? No, prima c’è l’etica. Prima ci sono i drammi di migliaia di famiglie che l’azzardo ha messo in ginocchio. Prima c’è gente uccisa dai debiti. Io da sindaca ho stretto gli orari, ho allontanato i <+CORSIVO50>videopoker<+TONDO50> da scuole e chiese. Ma non basta. Serve una legge "impossibile" che vieti completamente l’azzardo. In ogni forma. In ogni pubblicità.
A giorni va in Aula il regolamento di polizia urbana e un tema è la prostituzione.
La linea sarà: pene per chi sfrutta la prostituzione, ma anche pene per chi se ne serve. Chi si ferma sulla Salaria e fa salire in macchina una ragazzina non può passarla liscia. Servono multe severe e serve soprattutto un percorso di reinserimento. Poi ogni tanto si riaffaccia il tema "case chiuse". Su questo voglio essere nettissima: case chiuse no, anzi mai più. Il corpo di una donna è sacro, non posso nemmeno pensare a uno sfruttamento legalizzato. Poi c’è chi continua a sostenere che sia un settore da regolamentare affinché anche le prostitute paghino le tasse. Questi non hanno etica e, soprattutto, fanno finta di ignorare che nei Paesi nei quali sono state aperte le cosiddette case chiuse o le zone di tolleranza, il fenomeno della tratta internazionale delle ragazze non ha subito alcun freno. La legalità passa anche da qui, occorrono provvedimenti forti e coraggiosi. Noi ci siamo.
Parliamo di rifiuti. La differenziata è ferma. Manager presi e cacciati e azienda nel caos. E solo sulla carta i progetti per nuovi stabilimenti, visto che nessun cantiere è stato aperto. Si ha sempre la sensazione che il male sia inguaribile.
Vedo anche due dei quattro impianti di trattamento dei rifiuti della città dati alle fiamme. Così come vedo un’isola ecologica e 600 cassonetti bruciati. E, parallelamente, vedo che noi romani non ci arrendiamo mai: abbiamo portato il nuovo "porta a porta" a 250mila abitanti in due municipi e lì funziona. Vorremmo estendere l’esperimento.
Non proverà a raccontarci la storia del complotto...
C’è un fronte che frena. Che rema contro. Che si oppone al cambiamento. Magari si tratta di coloro che per decenni hanno lucrato sui lavori stradali fatti male, su una gestione poco chiara dei rifiuti, sugli appalti senza gare. Io vado dritta con un sogno che mi tiene compagnia. Vorrei che si capisse quello che stiamo cercando di fare. Abbiamo trovato una città ferma, darei tutto per vederla correre come non ha mai corso.

lunedì 15 aprile 2019

                                                        13 h
“Venivano dalla madre Grecia e portarono la civiltà, l'organizzazione, il commercio, l'arte, le scienze, il pensiero.
Quando il Nord dell'Italia viveva ancora nella barbarie e Roma cominciava appena ad uscirne, una serie di città greche sparse lungo le coste dell'Italia meridionale e della Sicilia avevano già raggiunto un grande livello di civiltà e di prosperità.
A partire dagli insediamenti dei Calcidesi a Pithekuossai – l'odierna Ischia – e a Cuma, nella prima metà del secolo VIII a. C., molte altre città greche sorsero nel Sud dell'Italia: Sibari, Napoli, Messina, Selinunte, Agrigento, Gela, Megara-Iblea, Crotone, Paestum, Taranto, Metaponto, Locri, Reggio, Taormina, Catania, Siracusa e costituirono la Magna Grecia.
Esse, come la madre patria, furono "poleis", ciascuna indipendente.
Tutto in quelle città fu greco: la religione, la cultura, i templi, i dipinti, le statue, il modo di abitare, l'acropoli, l'agorà, il calendario, il sistema di pesi e misure.
Cinque secoli di storia straordinaria che costituirono un modello perenne di civiltà che s'irradiò pian piano nel resto della Penisola e in Europa. E fu proprio quella parte della Magna Grecia – oggi Calabria – a regalare il nome storico di "Italia" e porsi, insieme a tutte le altre città come luogo d'incontro tra Oriente ed Occidente.
Era nato un "nuovo uomo". Era nata una nuova grande civiltà. Era nata nel Sud dell'Italia.
Vennero da lontano, anzi da molto lontano i padri fondatori di quell'incredibile "fabbrica politica del Sud".
I loro antenati Vichinghi partirono dalla Scandinavia, "regno di Odino e dei mostruosi Kroll", e scesero verso ovest fermandosi sulle coste settentrionali della Francia che assunse il nome di Normandia.
Quei barbari, rozzi e incolti, nella loro discesa verso Ovest e verso Sud, seppero però, in breve tempo, accettare il credo cristiano, sostituire il primitivo linguaggio con la lingua d'oïl di origine latina e, in poche generazioni, formarono una perfetta società feudale con i loro cavalieri e i loro nobili
I Normanni, dunque, ormai cavalieri, pragmatici ed animati da ideali, scesero nelle nostre terre, cavalcando per pianure e città, addobbati con i loro elmi, i loro spadoni, le loro calzamaglie di fil di ferro, istillando pian piano la loro straordinaria capacità a raggruppare e organizzare popoli e terre, affari e ricchezze, rapporti e modi di vita, in qualcosa che essi chiamarono regno e che noi, oggi, chiamiamo stato.
E saranno gli Altavilla ad avviare quella "fabbrica del Regno"che con alterne vicende durerà molti secoli. Così, Ruggero I cominciò a gettare le fondamenta di uno stato plurietnico e poliglotto, nel quale Normanni e Greci, Saraceni e Latini avrebbero, sotto un controllo centralizzato, conservato le proprie fedi e tradizioni culturali, in perfetta armonia e reciproco vantaggio.
Il "Regno di Napoli" o "delle Due Sicilie" o "Sud" che dir si voglia era diventato nei secoli indipendente da chi lo governava, un vitalissimo organismo geopolitico.
Il Sud disponeva oramai di una sostanziale autonomia, di un'identità forte, fatta di popolazioni amalgamate, di un'economia agricola e marinara, di un vernacolo "consonantico" che era la lingua mediterranea, di tradizioni e costumi.
E sarà proprio Ruggero II, incoronato re nella notte di Natale del 1130, con la sua saggezza e determinazione, a compiere il passo qualitativo più importante nell'opera di edificazione del Regno e, cioè, la definizione di quelle norme valide per tutte le regioni del Sud (Assise di Ariano).
I Normanni, dunque, operarono la "reductio ad unum" sul modello greco-romano, di regioni poste all'incrocio di tre specchi del Mediterraneo. La capacità in altre parole, di edificare un regno sottratto alla parcellizzazione e alla dispersione dei poteri, tipica dell'età feudale, un regno via via più strutturato, un organismo politico con i suoi popoli, le sue lingue destinate a far "koinè", le sue città ricche di storia e d'arte, la sua economia mista tra agricola e mercantile e, ovviamente, le sue leggi e istituzioni.
Un regno, insomma, sganciato dal destino dei suoi re e governatori. Questi passano, il regno resta.
Venne dalla Spagna il giovane Carlo III di Borbone, figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese, con l'incarico di ricomporre il Sud, il Regno delle Due Sicilie.
E così, nel luglio del 1734 iniziò l'avventura dei Borbone del Sud. Un'avventura durata 126 anni, fino al 1860, che creò uno stato indipendente con le sue leggi, la sua economia, il suo esercito, le sue tradizioni, la sua bandiera, la sua dignità.
Carlo – "il re perpetuo" – fu uno dei più saggi, autorevoli ed illuminati sovrani d'Europa. Si circondò di uomini illustri ed esperti, a cominciare da Bernardo Tanucci, sostenne la cultura, migliorò le leggi, costruì grandi opere come la Reggia di Caserta dotata di un acquedotto di ventisette miglia e il Teatro San Carlo, massimo d'Europa. Si avviarono gli scavi di Ercolano e Pompei, si costruì l'Albergo dei Poveri, commissionato a Ferdinando Fuga, dove furono accolti gli indigenti di tutto il Regno e che rimane oggi il più grande edificio del settecento esistente. Commissionò la stesura di un codice ad autorevoli giuristi, fondò nelle province scuole ed accademie, tutelò le arti e il commercio, incentivò l'agricoltura ma, soprattutto, limitò i privilegi dei baroni.
Carlo III, dunque, seppe continuare, rafforzandola, quell'identità nazionale iniziata nel 1130, regalando al Sud e a Napoli uno di periodi più splendidi della loro storia, con una definitiva indipendenza ed autonomia che sarebbe continuata , con alterne vicende, con luci e ombre, anche con gli altri sovrani fino al 1860, quando il processo di unità nazionale italiano pose fine a quella straordinaria vicenda storica durata quasi otto secoli.
Vennero dall'ostile Piemonte i liberatori sabaudi, i fratelli d'Italia che, tradendo gli ideali democratici e risorgimentali che pur avevano animato tenaci, convinte e tal volta eroiche minoranze intellettuali, imposero la loro logica di annessione e di ampliamento territoriale.
E fu l'Inferno!
Una feroce guerra civile lunga quasi dieci anni. Migliaia di morti. Migliaia di prigionieri rinchiusi nei lager del Nord Italia. Intere città rase al suolo. Atti di barbarie, come le avvisaglie prenaziste del generale Cialdini. Il saccheggio dell'intera ricchezza di quello che era stato, in assoluto, il più ricco degli stati italiani.
Per Mafia e Camorra, poi, cui fu affidato subito l'ordine pubblico e la gestione del plebiscito, si aprì una nuova epoca: il potere pubblico – nella nascente Italia unita – aveva bisogno "istituzionalmente" dei loro servizi e pagava…pagava bene, come nel caso dei trentaquattro miliardi (a valore di oggi) girati alla Camorra.
Venne, poi, l'emigrazione forzata. Nel solo periodo che va dal 1876 al 1920, circa un milione e ottocentomila meridionali furono costretti ad emigrare in lontane terre, con il loro carico di dolore e di nostalgie.
Ma venne soprattutto l'incomprensione. La demonizzazione del meridionale, la "razza maledetta", "la palla al piede", le teorie razziste, giunte come si sa fino ai giorni nostri.
Ma sia ben chiaro: tutto ciò è potuto accadere anche grazie alle gravi responsabilità di molti meridionali presenti nella politica, nelle istituzioni, nell'economia, nell'informazione, che hanno tradito il loro popolo, svendendo per i propri tornaconti la dignità di milioni di persone. Ignobili figure da relegare nella discarica della storia.
Il Sud, però, dato più volte per spacciato è sempre riuscito a sopravvivere, a rialzarsi anche nei momenti più drammatici della sua lunga vicenda storica.
È rimasto vivo e geloso della propria identità, rigettando spesso inconsciamente, ogni sostanziale forma di adattamento estranea alla sua tradizione.
Una lunga storia quella della nazione meridionale che deve ritornare a guardare al futuro con la consapevolezza di aver avuto un grande passato.
Nuovi uomini, nuove donne, nuove sane energie che debbono oggi unirsi per costruire una "Comunità Politica" del Mezzogiorno, sviluppando un progetto di rinascita e di ricostruzione dell'identità territoriale.
Un esercito delle coscienze motivato e determinato pronto a marciare verso i sentieri delle future generazioni.”
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