domenica 30 agosto 2020

                                                               VIRUS 2020


Covid 19, i piani antiepidemia lasciati nei cassetti. Anche dal governo Renzi. L’inchiesta su FQ MillenniuM in edicola

Covid 19, i piani antiepidemia lasciati nei cassetti. Anche dal governo Renzi. L’inchiesta su FQ MillenniuM in edicola

Con la ministra Lorenzin, nel 2014 l'Italia prende la guida del programma mondiale di sorveglianza delle malattie infettive. Ma in cinque anni non paga neanche la sua quota. Così, come altri Paesi, arriviamo impreparati alla peggiore emergenza del Dopoguerra. Ecco i documenti riservati che sanciscono il fallimento

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Il 26 marzo, quando in Italia si registrano 8000 vittime, Matteo Renzi esige l’istituzione di una commissione d’inchiesta sull’impreparazione delle istituzioni contro il nuovo coronavirus. Rispondiamo al suo appello, sul numero del mensile FQ MillenniuM attualmente in edicola, ricostruendo cronologicamente le vicende che hanno condotto a quello che meriterebbe l’appellativo “CoronaGate”. Scoviamo in particolare una serie di documenti inediti dell’Organizzazione mondiale della sanità e dell’Unione europea che evidenziano le falle strutturali dell’apparato che hanno reso l’Italia incapace di prevenire il peggio. E scopriamo un paradosso che probabilmente è sfuggito al senatore fiorentino ed ex-segretario del Pd. Il preludio al fallimento, di cui il nostro Paese condivide la responsabilità con gli Usa, l’Oms e gli altri Stati Ue, risale proprio all’epoca in cui Renzi era Presidente del Consiglio. Era lui formalmente il capofila della più grande coalizione internazionale mai costituita per arginare le minacce infettive. Peccato che il sodalizio non abbia centrato il suo scopo.Corre l’anno 2014. Lo spauracchio dell’Ebola, che per un pelo non si è esteso al mondo intero, persuade i potenti della Terra a lanciare la Global Health Security Agenda (Ghsa). Promotore della Ghsa è l’allora presidente Usa Barack Obama. I 30 paesi firmatari (oggi divenuti quasi 70, affiancati da organizzazioni internazionali e ong) affidano ai tecnici del ministro della Salute italiano la direzione del Comitato direttivo della Ghsa. A reggere le redini è la ministra Beatrice Lorenzin. Il suo ruolo è assicurare l’avanzamento dei lavori delle diverse task force costituite in seno alla coalizione. La piattaforma multilaterale, guidata dall’Italia fino al gennaio 2019 (prima che la presidenza di turno quinquennale passi all’Olanda) funziona solo sulla carta. Durante la gestione italiana, la Ghsa manca di affiatamento e di soldi per potenziarla.

Nel 2017 un team di ricercatori sino-americani pubblica l’ultimo di una serie di studi che presagiscono un probabile ritorno in forze dei coronavirus Sars annidati nei pipistrelli (dopo la precedente epidemia del 2002 circoscritta in Cina). In quello stesso anno, Paolo Gentiloni subentra a Renzi a Palazzo Chigi, confermando Lorenzin alla Sanità. L’Italia, ancora al comando della Ghsa, partecipa a una nuova task force guidata dagli Stati Uniti che ha il compito di escogitare modelli di finanziamento sostenibili per gli arsenali anti-pandemici. In tre anni non vi sono sostanziali progressi.

I costi della non curanza sono anticipati nel settembre 2019 in un’analisi dell’Oms, secondo cui un investimento di 1,7-3 miliardi di euro ogni anno per rafforzare i sistemi sanitari permetterebbe di risparmiare 26 miliardi in danni imprevisti. Tale preventivo quasi coincide col calo del Pil italiano (27 miliardi) stimato da Ref Ricerche. Neanche tre mesi dopo che l’Oms ha profetizzato il conto salato da pagare in conseguenza di un’attesa e sottovalutata pandemia, il Covid-19 si fa strada a Wuhan.

Il Centro di controllo sulle malattie degli Stati Uniti ha da anni un ufficio distaccato nella Repubblica popolare con la quale, peraltro, collabora nell’ambito della task force Ghsa impegnata a rafforzare le capacità dei laboratori di intercettare specie microbiche potenzialmente nefaste. Dal 2018 Washington ha intrapreso una simile cooperazione anche col Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc) nell’ambito della task force transatlantica sulla resistenza anti-microbiologica. C’è da chiedersi perché il Covid-19 sia allora sfuggito ai radar.

Una parziale risposta è nelle conclusioni, finora mai pubblicate, di un incontro ad alto livello tra i dirigenti nazionali organizzato dall’Ecdc nel marzo dell’anno scorso. Leggiamo nero su bianco: “riduzione dei finanziamenti e delle risorse umane”, “sorveglianza dei virus negli animali non sufficiente per un allarme tempestivo in caso di minaccia alla salute umana” e altre preoccupazioni che fanno eco ai ritardi già denunciati nel 2017 dall’Oms. L’attuale presidente del consiglio Giuseppe Conte pare giudicare l’avvenuto disastro come un evento ineluttabile, affermando su Repubblica dell’11 giugno che “non c’era un manuale da seguire nella gestione della crisi, ma solo decisioni da prendere giorno per giorno”.
La sua dottrina del coprifuoco totale, che l’Italia si vanta orgogliosamente di aver esportato all’estero, smaschera in realtà l’architettura fallimentare che il premier ha ereditato da chi ha governato prima di lui: non solo Renzi.

Ravvolgiamo il nastro. Siamo nel 2009. L’Oms chiede ai governi di rafforzare i loro piani pandemici traendo lezione dall’influenza suina (H1n1), appena sedata. Per di più, nel 2013 raccomanda loro di integrare i piani con azioni di contrasto rivolte a un’ampia gamma di possibili malattie, oltre all’influenza. Renzi e i suoi predecessori e successori fanno finta di nulla. Nel 2017, i nodi vengono al pettine. L’Ecdc, agenzia Ue competente in materia di salute pubblica, si accorge che il piano italiano è rimasto fermo al periodo pre-2009, come d’altronde i piani della maggior parte degli altri Stati membri. L’Ecdc e l’Oms stilano una pagella, ottenuta in via confidenziale da FQ MillenniuM, che colloca l’Italia tra i peggiori della classe. Al tempo stesso, forniscono linee guida e attività di formazione per aiutare i governi a rafforzare le capacità di risposta.

Dall’esame dell’Ecdc emerge che quasi tutti i piani mancano di misure idonee a proteggere gli individui più vulnerabili e a garantire un coordinamento transnazionale. Non a caso il Covid-19 seminerà vittime soprattutto tra gli anziani e i malati cronici e gli Stati membri agiranno in ordine sparso, chiudendo le loro frontiere e confinando la loro popolazione a cascata. In particolare, dalla valutazione dell’Ecdc e dell’Oms risulta che il piano italiano risulta sprovvisto di un sistema d’informazione rapida tra autorità sanitarie, medici e infermieri, di una metodologia per accertare rapidamente i primi casi di contagio e della capacità di effettuare test in laboratorio e assistere i pazienti in situazioni di sovraccarico.

L’obsolescenza dei piani nazionali stride con la normativa comunitaria del 2013 sui rischi sanitari transfrontalieri. Questa prevede che gli Stati membri comunichino le variazione dei loro piani ogni tre anni e che, inoltre, facciano scorte comuni di farmaci e indumenti protettivi in vista di eventuali pericoli epidemici. Il problema è che la normativa vigente non da poteri di coordinamento vincolanti alla Commissione europea. L’intervento in materia sanitaria resta prerogativa nazionale.
Solo nel mezzo della disfatta, l’Italia e i suoi partner europei ordinano insieme guanti e mascherine, ma l’infezione è ormai dilagata nelle strutture sanitarie e nelle case di cura.

Il piano pandemico italiano resta tutt’ora un mistero. Il sito del ministero della Salute riporta un aggiornamento al dicembre 2016, ma il contenuto pare immutato rispetto al 2010, come indicato peraltro nel sito dell’Ecdc. È anche dubbio se il piano sia stato attivato o meno, come chiedeva l’Ecdc alle prime riunioni del Comitato di sicurezza sanitaria Ue nel periodo in cui esplodevano i contagi in Nord Italia. Il Comitato, presieduto dalla Commissione europea, ha riunito a più riprese i rappresentanti degli Stati membri per fronteggiare l’emergenza in modo unitario.

Ultimo atto. Tra fine febbraio e inizio marzo, ossia nel periodo compreso tra il ricovero del paziente zero nella cittadina lombarda di Codogno e il blocco nazionale imposto dal governo, l’Oms e l’Ecdc conducono un’indagine congiunta in Italia. E scovano la causa principale della disfatta: il non rispetto degli standard internazionali per la raccolta locale dai dati e la loro disordinata comunicazione a livello centrale. Il rapporto conclusivo, che abbiamo potuto consultare, afferma che questa inadempienza «ha reso difficile tracciare un quadro chiaro sulle catene di trasmissione e le caratteristiche epidemiologiche e cliniche dei casi, indebolendo la capacità di valutare il livello di rischio nel paese».

FQ MillenniuM risulta che finora solo la Germania, insieme forse qualche Paese del Nord Europa, abbia regolarmente attuato e aggiornato le proprie disposizioni nazionali secondo i dettami dell’Ecdc e dell’Oms. C’è da chiedersi se i documenti da noi scoperti passeranno al vaglio della Commissione d’inchiesta in Lombardia, sperando che continui i suoi lavori nonostante il debutto intralciato dalle schermaglie politiche e dalle dimissioni della sua presidentessa Patrizia Baffi, sponsorizzata da Renzi, che in tre mesi di tempo non si è degnato di rilasciarci commenti così come Beatrice Lorenzin tutti gli altri personaggi italiani interpellati su queste vicende.

Leggi l’inchiesta completa su FQ MillenniuM di Agosto, in edicola e in versione digitale

 


Assenteisti e fannulloni: un terzo dei parlamentari è a tempo perso

Assenteisti e fannulloni: un terzo dei parlamentari è a tempo perso

Meno sono, più lavorano. C’è chi è mancato al 99% delle votazioni E l’attività legislativa si concentra su poco più del 10% degli eletti

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Quattordici lo frequentano da più di vent’anni. Pier Ferdinando Casini, il recordman in materia, ci ha messo piede per la prima volta il 12 luglio 1983. Altri ancora sono eletti, ma a votare in Aula vanno una volta su cento (e non per modo di dire). Tra le 945 storie che il Parlamento offre a ogni legislatura, anche questa volta non ne mancano di curiose, soprattutto perché l’alto numero di deputati e senatori difficilmente consente un controllo quotidiano sulla loro attività. Motivo per cui un taglio degli eletti, più che la deriva autoritaria paventata dal fronte del No al referendum potrebbe invece essere occasione per un utile snellimento. Basta guardare alcuni dati per scoprire come gran parte degli eletti passi il tempo altrove più che in Parlamento, come hanno notato anche Tito Boeri e Roberto Perotti su Repubblica: “Nella passata legislatura il 40% dei deputati e il 30% dei senatori ha disertato più di un terzo delle votazioni; l’attività legislativa si è concentrata su poco più del 10% dei parlamentari che hanno sommato tra loro più di un incarico, mentre due terzi non hanno ricoperto alcun ruolo”.

Chi l’ha visti? In fuga dalle Camere

I dati diffusi da OpenParlamento sulle presenze in Aula di deputati e senatori sono allarmanti. Le percentuali sono calcolate non sulle sedute, ma sul totale delle votazioni svolte da inizio legislatura. Alla Camera il primato tra gli assenteisti spetta a Michela Vittoria Brambilla (Forza Italia), che dal 2018 ha partecipato soltanto a 78 votazioni su 6.304. Risultato: il tasso di assenze è del 98,76%. Ci si avvicina Antonio Angelucci, dominus della sanità privata laziale che supera il 94%di assenze a Montecitorio. Più distante Vittorio Sgarbi, tornato in Parlamento dopo 12 anni ma senza far troppo l’abitudine all’Aula: OpenParlamento riporta un 79,52% di assenze alle votazioni. A Palazzo Madama le cose non vanno meglio. Senatori a vita a parte, la percentuale di assenze più alta ce l’ha Tommaso Cerno, eletto col Pd e di recente passato al Misto, mancato all’84,31% dei voti. Segue il forzista Niccolò Ghedini, il fedelissimo avvocato di Silvio Berlusconi assente nel 69% delle sedute analizzate.

Altro da fare Più poltrone per tutti

D’altra parte, lo si è accennato, il tempo per fare il parlamentare è un lusso che non tutti hanno a disposizione. È ancora OpenPolis ad aver realizzato un’indagine sugli incarichi privati di ogni eletto, scoprendo che la maggior parte dei deputati e dei senatori, al momento dell’elezione, aveva un ruolo nel board di almeno un’azienda. Anche qui si arriva a casi estremi, come quello di Guido Della Frera, deputato di FI alla prima legislatura: al marzo 2018, quando è diventato parlamentare, Della Frera aveva 21 incarichi in aziende, oltre a partecipazioni in 8 imprese. Su tutte c’è il Gdf Group, holding attiva nell’immobiliare e nel settore alberghiero.

Notevoli anche i 16 incarichi censiti per Daniela Santanché, senatrice berlusconiana socia e presidente di Visibilia Editore, oltreché di imprese dell’edilizia e di prodotti bio. Poco sotto, nella classifica dei più attivi nelle imprese, c’è un altro forzista, il deputato Maurizio Carrara, con interessi nel manufatturiero e nell’immobiliare che al momento dell’elezione risultava consigliere di ben 14 società.

Trai più attivi negli altri partiti ci sono poi i leghisti Massimo Bitonci e Giulio Centemero (11 incarichi a testa), il 5 Stelle Michele Gubitosa (otto incarichi) e alcuni giallorosa dagli interessi ingombranti, come Andrea Marcucci (sette incarichi, tra cui quello del colosso farmaceutico Kedrion) e Matteo Colaninno (Italia Viva), presente in sette imprese e soprattutto nel gioiello di famiglia Immsi (nautica, meccanica e alberghi).

Tasso zero Leggi, mozioni e altre fatiche

Per capire quanto un parlamentare lavori i numeri non bastano. Possono però aiutare a farsene un’idea. Durante la scorsa legislatura OpenParlamento aveva elaborato un “indice di produttività” calcolato sulla base delle proposte di legge presentate, delle presenze, degli interventi e così via. Un metodo non scientifico – e la fondazione sta lavorando per migliorarlo, tanto che i dati su questa legislatura non sono disponibili – ma utile a far emergere storture.

Spulciando tra i dati aggiornati al 2018, si scopre che molti dei parlamentari con indice più basso sono stati rieletti. È il caso di Gianfranco Rotondi: chiuse la scorsa legislatura al 619 esimo posto tra i deputati più produttivi, con un indice di 29,33 ben lontano dalla primatista alla Camera, la dem Donatella Ferranti (1.752), ma anche dalla media degli eletti, che si assestava a 213.

Peggio avevano fatto il deputato leghista Carmelo Lo Monte (620esimo), con un indice di 26,8 nonostante il suo partito fosse il più attivo (media oltre i 400), e il forzista Alfredo Messina al Senato (305esimo; 26,63). Nulla però in confronto a Antonio Angelucci e Niccolò Ghedini, uno a Montecitorio e l’altro a Palazzo Madama: il primo, 623esimo per produttività, fermo a 0,78; il secondo, 311esimo su 315, a 0,94. A ogni modo non si tratta di casi isolati, se si pensa che il 90% dei gruppi alla Camera e l’83,33% di quelli al Senato ha la maggior parte dei membri che produce meno della media. A dimostrazione che in molti sono già esclusi, di fatto, dall’attività del Parlamento.

 


IL 12 FEBBRAIO 2020 SUL TAVOLO DEL GOVERNO ARRIVA UNO STUDIO CHE PREVEDE FINO A 60 MILA MORTI PER IL CORONAVIRUS. QUALCUNO ALLORA SA SPIEGARCI PERCHÉ TRE GIORNI DOPO ABBIAMO MANDATO ALLA CINA 18 TONNELLATE DI MATERIALE SANITARIO? COSA HANNO FATTO CONTE E SPERANZA FINO AL 9 MARZO, GIORNO IN CUI È INIZIATO IL LOCKDOWN, PER PREPARARE IL SISTEMA SANITARIO AL PROBABILE ARRIVO DEL VIRUS IN ITALIA? ABBIAMO COMPRATO MASCHERINE, TAMPONI, PREDISPOSTO PROTOCOLLI DI PROTEZIONE DEL PERSONALE SANITARIO, PREPARATO UN PIANO PANDEMICO? – IL DOCUMENTO SECRETATO E OTTENUTO DA "REPUBBLICA"

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Conte SperanzaCONTE SPERANZA

Estratto dell’articolo di Riccardo Luna per “la Repubblica”

 

Il 12 febbraio 2020 era il primo giorno in cui abbiamo iniziato a chiamare Covid-19 la malattia portata dal nuovo coronavirus. (…) E alle nove era in programma una importante riunione del Comitato tecnico scientifico il cui contenuto è rimasto segreto fino ad oggi. L'oggetto della riunione era la presentazione di uno studio intitolato "Scenari di diffusione di 2019-NCOV in Italia e impatto sul servizio sanitario, in caso il virus non possa essere contenuto localmente".

STEFANO MERLERSTEFANO MERLER

 

Era stato realizzato da un ricercatore della Fondazione Bruno Kessler: Stefano Merler, 51 anni, più della metà dei quali passati a costruire modelli matematici applicati alle pandemie. (…)

 

Lo studio si basa sui (pochi) dati arrivati fino a quel momento dalla Cina per provare a capire cosa sarebbe potuto accadere in Italia: l'impatto sul sistema sanitario (va ricordato che l'11 febbraio nel mondo c'erano 43 mila casi, di cui 42 mila solo in Cina).

 

(…) I due scenari considerati plausibili dallo studio sono R0 1.3 e 1.7. Questi i risultati. Nel primo scenario i casi di contagio in Italia sarebbero stati circa un milione, nel secondo, addirittura due. Di questi, i casi gravi che richiedono cure, oscillano fra 200 e 400 mila.

 

ITALIA CoronavirusITALIA CORONAVIRUS

Il fabbisogno totale di letti in terapia intensiva varia fra 60 e 120 mila. Nel momento di picco, dice lo studio, ci sarebbe stato un gap di circa 10 mila letti nei reparti di terapia intensiva. Il documento non fa stime sul numero di morti, ma secondo Merler, il tasso di letalità registrato in quel momento in Cina applicato agli scenari italiani, produceva un risultato spaventoso: fra 35 e 60 mila morti da Covid-19.

 

(…) Questo documento è stato ottenuto dopo oltre cento giorni di intenso dialogo con il ministero della Salute e la Protezione Civile.

andrea urbaniANDREA URBANI

 

Dialogo iniziato il 13 maggio quando abbiamo richiesto un "accesso agli atti" in seguito a una intervista del direttore generale della programmazione del ministero della Salute Andrea Urbani (…)

 

(…) La richiesta del 13 maggio - tecnicamente, un Foia - dal ministero è stata dirottata sulla Protezione civile che a stretto giro ha replicato di non avere il documento che cercavamo.

 

giuseppe conte roberto speranzaGIUSEPPE CONTE ROBERTO SPERANZA

A seguito di una ulteriore richiesta di riesame, il 20 agosto il ministero della Salute ci ha fornito alcune informazioni importanti: 1) non è vero che a gennaio c'era un piano pandemico, si tratta di un travisamento giornalistico; 2) Urbani faceva riferimento agli scenari sulla diffusione del virus presentati dalla Fondazione Bruno Kessler al Comitato tecnico scientifico il 12 febbraio; 3) quello studio era effettivamente riservato, se non segreto, visto che la nota di Salute concludeva dicendo che «la presidenza del Consiglio sta valutando se e come renderlo pubblico».

ANGELO BORRELLI CON LA MASCHERINAANGELO BORRELLI CON LA MASCHERINA

 

Morale: chiedete alla Protezione civile, presso cui è insediato il CTS. Il 28 agosto dal capo della Protezione civile Angelo Borrelli è arrivato il documento. Che però non chiude la vicenda, ma semmai apre la strada a nuove domande. Ne citiamo alcune.

 

Italia coronavirusITALIA CORONAVIRUS

Perché, sapendo che il virus sarebbe arrivato in Italia e che era probabile che contagiasse oltre un milione di persone facendo 35 mila morti, tre giorni dopo abbiamo mandato alla Cina 18 tonnellate di materiale di protezione sanitaria? E poi. Cosa abbiamo fatto dal 12 febbraio al 9 marzo, quando inizia il lockdown, per preparare il sistema sanitario al probabile arrivo del virus? Abbiamo comprato mascherine, tamponi, predisposto protocolli di protezione del personale sanitario?

PIERPAOLO SILERI GIUSEPPE CONTE ROBERTO SPERANZAPIERPAOLO SILERI GIUSEPPE CONTE ROBERTO SPERANZA

 

Infine. Quando e come si è arrivati ad avere finalmente un vero piano pandemico? A metà marzo, dicono alcuni. È possibile conoscerne il contenuto? (…)

Italia, seriate - coronavirusITALIA, SERIATE - CORONAVIRUS

sabato 22 agosto 2020

                                                                        USTICA


NON SIETE STATO, VOI - IMPOSTO IL SEGRETO DI STATO PER ALTRI NOVE ANNI AI DOCUMENTI LEGATI ALLA STRAGE DI USTICA E ALLE ATTIVITÀ DEL COLONNELLO STEFANO GIOVANNONE IN LIBANO - LA FIGLIA DI UNA DELLE VITTIME CHIEDEVA L'ACCESSO AI FILE MA PALAZZO CHIGI SI È OPPOSTO: “PUBBLICARE LE CARTE ARRECHEREBBE UN GRAVE PREGIUDIZIO AGLI INTERESSI DELLA REPUBBLICA”

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Francesco Grignetti per “la Stampa”

 

STRAGE DI USTICASTRAGE DI USTICA

Quarant' anni sono trascorsi, ma non sono ancora sufficienti per considerare inoffensivi certi documenti del 1980 che raccontano quel che l'Italia faceva in Medio Oriente. Perciò deve permanere il segreto sui documenti del Sismi che venivano da Beirut. L'ombra del colonnello Stefano Giovannone, il capocentro dei nostri servizi segreti che operò in Libano dal 1973 al 1982 si staglia ancora. L'unica conclusione che si può trarre, è che il seme che il nostro 007 gettò non ha terminato di dare i suoi frutti. La sua rete d'intelligence in qualche modo è ancora operante. Per questo motivo non se ne parla di rendere pubblici i suoi documenti.

 

STRAGE DI USTICASTRAGE DI USTICA

La risposta che palazzo Chigi ha dato ieri alla signora Giuliana Cavazza, figlia di una vittima della strage di Ustica, che chiedeva copia dei documenti, per il momento chiude un cerchio: anche se il 1980 è lontano, è a rischio la sicurezza nazionale. Se qualcuno pensava che da queste carte potessero venire risposte ai mille interrogativi sulle stragi di Ustica (27 giugno 1980) e della stazione di Bologna (2 agosto 1980), ebbene, per ora non se ne parla. E i servizi segreti sono intenzionati a mantenere il segreto quantomeno fino al 2029, come è stato detto all'ex senatore Carlo Giovanardi in un incontro a palazzo Chigi.

 

stefano giovannoneSTEFANO GIOVANNONE

La lettera non lascia scampo. Pubblicare le carte che portano la firma di Giovannone non è possibile perché si arrecherebbe «un grave pregiudizio agli interessi della Repubblica». Eppure qualcuno le ha lette: i parlamentari della scorsa legislatura che facevano parte della commissione d'inchiesta sul caso Moro. Ma anch' essi sono stati vincolati al segreto. Sanno, però non possono divulgare. La lettera della presidenza del Consiglio alla signora Cavazza ripercorre brevemente la storia: il colonnello Giovannone oppose il segreto di Stato durante l'inchiesta sulla scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo.

 

Era il 1984 quando l'allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, confermò il segreto di Stato e ciò impedì anche ai magistrati di visionare il dossier. Da quel momento sulle informazioni di Giovannone si è stesa una coltre impenetrabile che è durata fino al 2014. È quanto prescrive la legge: il segreto di Stato può durare al massimo trent' anni. Immediatamente dopo, però, sulle sue carte è subentrata la classifica di «segretissimo». Significa che ora almeno i magistrati potrebbero leggere questi documenti, ma con tanti vincoli, e non è dato sapere quali procure li hanno visionati. I ricercatori, i giornalisti e gli storici, invece, non potranno leggere nulla.

 

GIULIO ANDREOTTI E ARAFATGIULIO ANDREOTTI E ARAFAT

L'opinione pubblica non potrà sapere anche se qualcosa è già venuto fuori. Il segreto riguarda una serie di telegrammi cifrati sui rapporti occulti tra Italia e palestinesi, l'Olp, la formazione al-Fatah di Yasser Arafat, la formazione ancor più estremistica Fplp di George Habbash, altri servizi segreti arabi, i libici. Nel plico ci sono gli allarmi che Giovannone faceva rimbalzare a Roma. L'escalation nel corso del 1979 e 1980 di minacce contro gli italiani da parte del gruppo terroristico Fplp dopo che furono sequestrati ad Ortona, in Abruzzo, alcuni missili terra-aria di fabbricazione sovietica che stavano portando attraverso l'Italia.

 

CARLOS IL TERRORISTACARLOS IL TERRORISTA

Oppure i riferimenti al super-terrorista Carlos, sanguinario e folle, che era al soldo del Patto di Varsavia, ma anche di Gheddafi o di Saddam Hussein. Un documento impressiona più di tutti: un cablo arrivato a Roma il 27 giugno 1980, proprio il giorno in cui sarebbe precipitato il Dc9 dell'Itavia con 81 persone a bordo, nel quale il colonnello del Sismi avvisava che l'Fplp dichiarava superato il Lodo Moro. Da quel momento per il gruppo di Habbash non vigeva più l'accordo che era stato stipulato sei o sette anni prima e che garantiva di tenere fuori l'Italia da atti terroristici. In cambio, ci eravamo impegnati a favorire i palestinesi in molti modi.

 

Soprattutto sul piano diplomatico: avremmo aiutato l'Olp ad ottenere il riconoscimento dalla Comunità economica europea. Riconoscimento che venne il 14 giugno con una famosa, all'epoca, Dichiarazione di Venezia. Presidente del Consiglio era Francesco Cossiga. E se oggi quel passaggio è negletto, occorre ricordare che per impedire la Dichiarazione di Venezia si mossero forze potenti. Saddam, Gheddafi e Assad erano come impazziti contro Sadat (che sarebbe stato assassinato l'anno dopo) e Arafat, considerati traditori della causa.

cossiga e andreottiCOSSIGA E ANDREOTTI

 

La settimana seguente, tra il 22 e il 23 giugno, Venezia ospitò anche una riunione del G7 con il Presidente Carter. L'ex ambasciatore Richard Gardner nelle memorie accenna all'incubo di un attentato contro il suo Presidente. Francesco Cossiga insomma fu il mattatore dell'estate '80. Le stragi sono collegabili a quegli eventi? Le carte di Giovannone per il momento non ci aiuteranno.