martedì 8 aprile 2025
Omicidio Scopelliti, 34 anni dopo nuovi rilievi della polizia sull’auto dove morì il giudice
di Alessia Candito
Omicidio Scopelliti, 34 anni dopo nuovi rilievi della polizia sull’auto dove morì il giudice
Gli esami della scientifica sulla Bmw 318i mai svolti prima: il mezzo riportato sul luogo del delitto
08 Aprile 2025
Aggiornato alle 12:46
3 minuti di lettura
Non è chiusa l’indagine sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, i magistrati non hanno rinunciato a scoprire la verità su quel delitto che le più recenti ricostruzioni giudiziarie considerano l’alfa della stagione delle stragi.
A quasi 34 anni da quel 9 agosto 1991, quando il giudice Antonino Scopelliti fu assassinato nella sua auto a Piale, nei pressi di Villa San Giovanni, in Calabria, la polizia torna sul luogo del delitto per nuovi rilievi scientifici. Per gli accertamenti, gli specialisti sono arrivati da Roma e da ore lavorano attorno all’auto del giudice, una Bmw 218, che è stata riportata sul luogo dell’attentato per verificare in concreto proiezioni, calcoli e proiezioni in 3D che sulla carta tornano.
L’ultima svolta di un’inchiesta, che il procuratore facente funzioni della Dda Reggio Calabria Giuseppe Lombardo ha iniziato da pm e con determinazione negli anni non ha mai mollato, arriva grazie al lavoro sviluppato sull’arma sequestrata nel 2018 su indicazione del pentito Maurizio Avola, collaboratore assai controverso, che di certo ha mentito su molte cose – e ancora non ha spiegato perché o per chi – ma nel suo racconto ha dovuto mischiare verità e bugie.
L’indicazione sul fucile - una doppietta Arrizabalà calibro 12 di fabbricazione spagnola, riprodotta fedelmente dalla Beretta e oggi usata per le prove tecniche – sembra essere fra quelle corrette. Lo dicono documenti e accertamenti balistici sull’arma che per il pentito è stata usata per quell’agguato.
In un certo senso, quell’arma è stata un errore e una firma. Quella doppietta – hanno raccontato i rilievi – era prodotta dalla ditta spagnola “Zabala Hermanos”. Si tratta di un fucile da caccia con mirino di precisione, ancora consigliato sui forum di appassionati per la caccia alle beccacce. Le canne sono state però modificate. Di fabbrica misurano sessantasei centimetri, quelle dell’arma rinvenuta nel 2018 “circa 47 cm”, segno che sono state accorciate. Una pratica assai spesso utilizzata dagli armieri dei clan per allargare la rosata di sparo o rendere l’arma più facile da nascondere o gestire durante un agguato. In quello in cui il giudice è stato ucciso, due sicari hanno affiancato l’auto e presumibilmente quello seduto dietro ha sparato.
Era il 9 agosto del 1991. Il giudice tornava alla casa di famiglia dopo una giornata trascorsa al mare. Stava preparando l’accusa per il maxiprocesso in Cassazione contro i Corleonesi, quelle ore in spiaggia erano la sua quotidiana boccata d’aria. Non era scortato, non aveva alcun tipo di protezione. Alle 17.21, mentre percorreva la stretta strada, tutta tornanti, che collega la frazione Ferrito di Villa San Giovanni a Piale di Campo Calabro (Reggio Calabria) i sicari lo hanno sorpreso.
L’auto del giudice è finita in un fosso fra gli ulivi e lì è stata ricollocata dagli uomini della scientifica. Sulla strada c’è anche una moto di grossa cilindrata uguale a quella usata per il delitto, un'Honda Gold Wing, che si differenzia da quella dei killer solo nel colore, bianca anzichè amaranto. È lo stesso modello trovato dagli investigatori sulla scena del crimine quella sera di agosto di 34 anni fa.
È iniziata da lì un’indagine storta, mozza, sfociata in due processi che alla sbarra hanno portato l’élite di Cosa Nostra, senza mai arrivare a una condanna. L’ipotesi principale è che quel delitto sia stato un “favore” chiesto dalle cosche siciliane ai clan calabresi, tuttavia nelle prime fasi di indagini, è misteriosamente andato perso per poi riemergere solo a processo un dato fondamentale: per quell’omicidio è arrivata una rivendicazione di Falange Armata, la sigla – hanno ormai accertato altre inchieste e procedimenti – servita a rivendicare omicidi, bombe e stragi che hanno insanguinato l’Italia fra il 91 e il 94.
Una lunga scia di sangue che va dal brutale assassinio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, freddato a Milano dal clan Papalia per aver scoperto i rapporti fra il boss don Mico e i servizi, ai tre attentati calabresi contro i carabinieri, con in mezzo le bombe della stagione degli attentati continentali. Delitti che portano la firma tanto di Cosa Nostra come della ‘Ndrangheta, ma incomprensibilmente per l’omicidio del giudice, non è mai stato portato un calabrese a processo. Eppure, per dinamiche mafiose ormai accertate, è inverosimile. Soprattutto in quel momento storico.
A Reggio Calabria ci si avviava verso la fine della seconda sanguinosa guerra di ‘ndrangheta, conflitto fratricida da 800 morti ammazzati in cinque anni, chiuso, ha detto il pentito Giacomo Ubaldo Lauro, uno dei primi collaboratori della storia dei clan calabresi, “con una pace che pace non è”. Impossibile che i siciliani intervenissero senza chiedere permesso. Anche perché, ha raccontato un altro pentito, Salvatore Annacondia, potrebbe esserci stato un summit per discutere di quell’omicidio. Risale a qualche mese prima, è convocato nella casa- fortino dello storico clan dei Tegano, frequentata spesso non solo da uomini di rango dei clan calabresi, ma anche da emissari dei Santapaola. Improvvisamente viene interrotto da un blitz di cui non si trova traccia. E’ della Criminalpol all’epoca diretta da Mario Blasco. Il primo investigatore a arrivare sulla scena dopo l’omicidio Scopelliti.
Solo nel 2019,per l’omicidio del giudice Scopelliti il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha iscritto sul registro degli indagati 17 persone. E per la prima volta in elenco sono comparsi anche i calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. Insieme, quasi totale rappresentanza dei vertici della ‘Ndrangheta visibile, più almeno due elementi della componente riservata dei clan calabresi. Una cupola senza capi, un organismo collegiale e sconosciuto ai ranghi bassi dell’organizzazione, l’unico in grado di discutere con i “cugini siciliani” un affare delicato come l’omicidio di un giudice.
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